Un libro giapponese. Sembra un romanzo criminale. In realtà è un libro che svela la fragilità delle democrazie di fronte alle mafie. La riflessione e l'allarme di uno scrittore italiano molto particolare

Ex gangster di medio calibro, Takino si è ritirato a gestire un supermercato nei sobborghi di Tokyo. La sua vita scorre monotona e normale sino al giorno in cui una ricca compagnia non ha la malaugurata idea di posare lo sguardo sul supermercato, incaricando un suo uomo di sbarazzarsi del proprietario.

È quanto basta all'antico istinto guerriero per risvegliarsi, riscoprire l'orgoglio di un tempo, la voglia di lottare, il gusto acre della strada. È tempo di riprendere le armi. Takino scatena una guerra senza quartiere contro la ricca compagnia e nello stesso tempo contro i camerati di una volta, ormai asserviti alle più bieche logiche imprenditoriali.

Takino contro tutti, buoni o cattivi che siano. Il tutto scandito dal tradizionale corollario di morti ammazzati, sparatorie, belle dame senza pietà, cinici manutengoli, vecchi compari rispettosi del codice d'onore e giovani gangster schizzati. La trama di 'Tokyo Noir', romanzo del 1983 che segna l'approdo nelle librerie italiane (con Newton Compton) del sessantaduenne Kenzo Kitakata, considerato l'indiscusso maestro del noir nipponico, contiene, a una prima lettura, tutti gli elementi tradizionali che consentono l'immediata riconoscibilità del genere. E gli appassionati non mancheranno di ritrovarvi quegli echi di hard-boiled, quelle suggestioni metropolitane, quell'inconfondibile sapore di vite disperate che, in fondo, tutti chiediamo a un noir.

Ma questo è solo il contorno di un romanzo più ambizioso, e che merita una lettura più approfondita, perché parla di questioni più generali. La parola-chiave è yakuza. Dialoghi e ambientazione evocano le atmosfere di 'Sonatine', 'Hana-bi', 'Brother', i capolavori di Takeshi Kitano che hanno contribuito a creare, da noi, l'immaginario-yakuza. Yakuza significa mafia in versione giapponese: una fratellanza rigorosamente maschile, come si conviene ad associazioni di questo genere, popolata di individui che amano sfoggiare complessi e artistici tatuaggi, abiti chiassosi e inquietanti lenti a specchio.

Sappiamo ancora, degli yakuza, che, a differenza dei mafiosi nostrani, non si nascondono nelle pieghe della società, come anonimi contabili del crimine, ma, al contrario, pretendono ed esigono che la loro presenza sia riconosciuta: d'altronde, non si ritengono affatto criminali, e, dunque, si vantano di meritare rispetto e timore. Abbiamo appreso che regolano le questioni di potere richiamandosi al ninkyodo, un rigoroso codice morale che dicono improntato all'etica dei samurai e che dovrebbe ispirarne la condotta anche nella vita privata, esaltata come integra e laboriosa. Li conosciamo, infine, devoti al capo come a un padre, e pronti a tutto per attestare la fedeltà all'organizzazione: allo yubitsume, amputazione rituale della falange del dito mignolo, e persino al suicidio.

Tutti questi elementi ricorrono nel romanzo di Kitakata. Ma tutto questo rischia di apparire folklore se non si scava sotto la superficie. Se non ci si spinge sino all''altrove' della narrazione: che per Kitakata, come per Kitano, sta nel considerare la yakuza come una metafora della condizione umana, lo scenario ideale per raccontare, a un primo livello, lo spaesamento dell'individuo travolto da uno stato di crisi, e, più nel profondo, la natura stessa di questa crisi. Il gioco di Kitikata si rivela in tutta la sua sottigliezza se si considera che, secondo la tradizione, il termine yakuza indica la mano perdente di un popolare gioco giapponese di carte, e, per traslato, un individuo senza qualità, un uomo da niente.

In questo senso, Takino che appende la carabina al chiodo, come i tanti patetici e fanciulleschi criminali di Takeshi, è il vero yakuza: un perdente che, nella mitologia dell'organizzazione, dovrebbe stare dalla parte dei deboli. Sotto questo aspetto, il modo in cui gli yakuza raccontano se stessi ricorda la classica descrizione del mafioso nell'agiografia ottocentesca del Pitrè: uomo valente, che non si tiene la mosca al naso, difende orfani e vedove e raddrizza i torti laddove la giustizia è impotente.

Mitologia. E come ogni mitologia criminale, il falso è la regola. Gli yakuza si vedono come paladini dei deboli, e invocano un antico codice d'onore, ma sono i primi a tradirlo per convenienza, per affarismo, per ossequio alle logiche del profitto. Noi sappiamo bene di che cosa è stata ed è capace la mafia: quelli come Takino sono condannati ad accorgersene a proprie spese. E quando arrivano a comprendere che la mafia (qualunque sia la sua denominazione locale) è una 'gabbia' (Ori, la gabbia, è il titolo originale del romanzo) la loro reazione apre scenari imprevedibili.

È un intero mondo che crolla. Si può scegliere di morire con la pistola in pugno, o di accelerarne la dissoluzione collaborando con i nemici di un tempo. La crisi di coscienza, diciamo così, di Takino, è analoga a quella che ci ha raccontato il protopentito Tommaso Buscetta: parlo perché la mafia non è più quella di un tempo. Non sono io a tradire, ma Riina e i suoi accoliti. Nell'uno e nell'altro caso, la falsa mitologia è salva: resta il fatto che, agli occhi dell'osservatore, una via d'uscita romantica e disperata piace di più della burocratica compilazione di verbali d'accusa. Anche se i Buscetta sono incomparabilmente più utili alla società, la nostra parte oscura vibra di simpatia per l'eroe solitario che riscatta una vita dannata punendo i suoi osceni capi.

Kitakata, d'altronde, va oltre la dimensione individuale di un mafioso in crisi che si sente tradito nella sua mafiosità. 'Tokyo Noir' è la spia di una più vasta crisi sociale, politica, economica. Takino non riprenderebbe le armi se una grossa compagnia non pretendesse di scacciarlo dalla sua proprietà. La gabbia mafiosa è perfettamente aderente alla gabbia sociale che favorisce l'adozione di pratiche criminali anche negli affari ordinari. E la yakuza dei ricchi, diciamo pure l'alta mafia, si avventa sui pesci piccoli, pronta a divorarli. Non esistono più regole, onore, codici di comportamento.

Scoprire che la mafia è un inganno va di pari passo con lo scoprire che le regole democratiche sono un inganno. La yakuza ha uffici di rappresentanza sparsi in tutto il Paese, spesso mascherati dalla copertura offerta da organizzazioni culturali di estrema destra. I tentativi di vari governi di ridimensionarne l'importanza strategica hanno sortito effetti sporadici e limitati. Kitakata racconta una storia ambientata a Tokyo, ma potrebbe essere trapiantata a Parigi, a Glasgow, a Mumbai, a Stoccolma, a Berlino, Barcellona, Milano. Dovunque ci sia una democrazia che alimenta connivenze e collusioni.

Dovunque uomini abili e spregiudicati riescano a inserirsi nei gangli del sistema pervertendolo e piegandolo ai propri fini. Dovunque patti occulti, improntati alla mutua convenienza, leghino le persone per bene ai delinquenti di strada. È una storia del giorno d'oggi, e in effetti storie simili si scrivono, ogni giorno, in tutte le democrazie. Le chiamiamo romanzi noir, ma da almeno un quarto di secolo ci stanno raccontando tutt'altro: la crisi della democrazia, appunto. 'Tokyo Noir' merita attenzione non solo e non tanto perché è un gran bel libro (peccato solo che sia una ritraduzione dall'inglese, e non dalla lingua madre), ma perché ci spiega, con esemplare chiarezza, che Tokyo è dietro l'angolo, è come Roma e Londra e New York, è solo un altro angolino della Grande Gabbia.

Kitakata, in altri termini, si iscrive di diritto alla pattuglia di scrittori che, da Ellroy a Mankell, da Carlotto a Ian Rankin, sino al Vikram Chandra di 'Giochi sacri', passando per il popolarissimo Larsson, si interrogano sul presente delle democrazie, sui rapporti fra poteri leciti e occulti, fra economie legali e criminali, fra mafie e istituzioni.

Noir in questo contesto, è solo un'etichetta come tante. Comoda per i pigri. Indica la presenza di qualche elemento di genere, ma il senso sta da tutt'altra parte: la democrazia è la vera vittima, e spesso l'assassino veste la divisa dei 'buoni'. Si potrebbe obbiettare: ma questa tendenza a rileggere la storia contemporanea come storia criminale non sarà solo un modo per vendere più libri? Certo: i libri si fanno per tenerseli nel cassetto, ci mancherebbe altro. E si potrebbe obiettare ancora: ma dietro tutto questo non ci saranno solo fantasie di egocentrici ammalati di complottismo? Forse: per chi crede che JFK sia stato ammazzato da un ex marine psicopatico, Olof Palme sia morto d'indigestione, i mafiosi portino la coppola e la lupara, e a Portella della Ginestra il bandito Giuliano sparava mortaretti per festeggiare il Primo Maggio.

Per molti altri si tratta di cose molto serie, come è, o dovrebbe essere, la democrazia. Per qualcuno, infine, siamo in presenza di un fenomeno letterario così ampio e diffuso che, prima o poi, magari quando sarà tramontato, persino i critici se ne accorgeranno.