Tre quadri splendidi. Una casa sempre diversa. E un giardino scomparso. Il racconto di un grande scrittore. 'Oltre la luce' della Riviera di Ponente

L'avventura inizia con una riproduzione sul mio calendario da muro: rappresenta una casa dipinta da Monet. Mi piace non sapere nulla del dipinto. Mi piace poter immaginare dove sia ambientato, pensare che potrebbe probabilmente essere in Francia, Italia, Sicilia, ma anche altrove. Guardo l'immagine e faccio un qualcosa che potrei definire fantasticare, solo che non sto fantasticando sulla casa o sul dipinto. Sto fantasticando su quello che il dipinto suggerisce. Troppe riflessioni uccidono le avventure. Ed è la ragione per la quale la mia avventura con il quadro di Monet non potrà durare molto a lungo. La didascalia, quando alla fine imbroglio e la guardo, dice: 'Villa a Bordighera'. Non avevo mai sentito nominare Bordighera prima, mi piace non sapere dove sia. Non voglio saperlo. Però non resisto e presto comincio a cercare altre informazioni. Scopro che Bordighera si affaccia sul mare sulla Riviera di Ponente, con vista su Mentone e Monte Carlo. Ulteriori ricerche rivelano il nome dell'architetto della villa: Charles Garnier, famoso per aver costruito l'Opéra di Parigi e il Casinò di Monte Carlo.

Su Internet scopro che ci sono altri due dipinti di Monet oltre agli infiniti quadri di giardini e palme ambientati a Bordighera. Il primo è una copia di quello sul mio calendario. Il secondo rappresenta un'identica vista della stessa strada sterrata, la via Romana, con le stesse ville sullo sfondo ma con una differenza: la grande casa con il balcone è sparita. Sembra come se Monet stesse giocando a dimenticare la casa solo per farla poi apparire di nuovo in un altro quadro, provando la scena 'ora con', 'ora senza' la casa, nello stesso modo in cui una donna che si prepara per andare a cena prova il vestito con o senza collana. La lussureggiante natura della proprietà di Francesco Moreno, che ospitava il più bel giardino botanico d'Europa, le onnipresenti vedute del mare e sempre quell'inevitabile, irresistibile campanile con la sua cupola a cipolla che svettava sopra ogni cosa. Monet non è in grado di toccare nessuno di questi elementi senza invocare gli altri due. Vegetazione lussureggiante, paesaggi marini, campanile dominante. Continua a tornare da loro, a dipingerli separatamente o insieme, spostandoli come farebbe un fotografo davanti a una famiglia che non collabora per la fotografia di gruppo.

Un giorno in una galleria di New York sono incappato in un terzo quadro di Monet che rappresentava la stessa casa: solo che il terzo piano, che mancava nelle prime due tele, in questo si vede abbastanza bene. Voglio trovarmi in quella casa, possedere quella casa. Comincio a riempirla di personaggi immaginari; la trama viene da sé. A un certo punto ho deciso che era tempo di smettere di fantasticare e di andare a vedere Bordighera con i miei occhi. Dovevo tenere una conferenza a Como, perciò invece di volare direttamente da New York a Milano, ho deciso di volare su Nizza. Da Nizza avrei preso il treno per l'Italia. Dopo una cinquantina di minuti ero a Bordighera. La città è tranquilla, la luce scintillante, il mare turchese, intenso e calmo. Questo, mi dico, è il mio momento Monet. La mia prima fermata sarà la casa sulla via Romana, la seconda il campanile e la terza i giardini Moreno. Fortunatamente anche il mio albergo si trova sulla via Romana. L'uomo alla concierge sembra interdetto e dice di non aver mai sentito parlare dei giardini Moreno. È sicuro? Si dirige nell'ufficio sul retro e torna con una donna, probabilmente la proprietaria dell'albergo. Neanche lei ne ha mai sentito parlare. Neanche la mia seconda domanda legata alla casa dipinta da Monet mi avvicina alla verità. Comincio a temere che la Bordighera di Monet sia stata cancellata dalle mappe. Mi sento come quei turisti testardi che si ostinano a chiedere dove si trova il faro di Alessandria, non rendendosi conto che del vecchio faro non è rimasto nulla, come dell'antica Grecia, di Roma o di qualsiasi impero.

Sono quasi le tre e devo trovare un luogo in cui pranzare. Dalla via Romana torno verso la stazione. Cammino e a un tratto penso - eccolo: il campanile che cercavo. Esattamente come lo aveva dipinto Monet con la scintillante e smaltata cupola rococò. Ho appena iniziato a percorrere la via Romana, quando d'un tratto mi appare davanti a sorpresa una cittadina collinare dalla quale svetta un altro campanile, con una cupola a forma di bulbo quasi identica a quella che ho trovato sulla costa. Mi rendo conto che la città non ha uno, ma due campanili e il campanile che appare nel dipinto non è necessariamente quello della chiesa alla Marina come credevo, ma probabilmente quello della città alta. Decido di tornare verso il lungomare. Sto già pensando di tornare a Bordighera, e con questo in mente mi fermo a un hotel. Entro e chiedo il prezzo di una doppia. Poi chiedo dei giardini Moreno. Di nuovo mi viene raccontata la stessa storia. Non esistono Giardini Moreno. "Ma Monet...", dico. La terra di Moreno è stata divisa più di un secolo fa, racconta un uomo che prima chiacchierava con il proprietario dell'albergo. Francesco Moreno possedeva tutta Bordighera. Esportava olio di oliva nell'Estremo Oriente e importava piante da ogni parte del mondo. Per questo Monet aveva fatto il possibile per essere ammesso nel giardino. La proprietà è stata poi sacrificata per costruire quella che oggi è la via Romana. Mi sembra di aver trovato solo perdita in questo posto, non quello che ci ha portato Monet. Perché è così che ho sempre letto l'arte di Monet - un passaggio verso un mondo in cui l'abbondanza esiste, dove il sole brilla al mattino inoltrato e nei pomeriggi tranquilli, e dove crescono gli agrumi.

Sono immerso in questi pensieri mentre scendo verso la Marina. Poi, sulla via, finalmente vedo la casa. Non c'è dubbio. Stessi balconi, stesse balaustre, stessi piani accatastati sulla torretta. Mi faccio forza e suono il campanello. "Chi è?", chiede una voce di donna. Le dico che sono in visita da New York e che farei qualsiasi cosa pur di vedere la casa di Monet. "Attenda". Entro. Una porta si apre e arriva una suora. Mi dice di seguirla e mi conduce in casa. Mi mostra il salotto degli ospiti, la sala della televisione. È un convento? Un ospizio? Non riesco a non scattare una foto. Lei ridacchia e poi mi porta nella sala da pranzo ed è la sala da pranzo più calda e serena che io abbia mai visto. La sala è apparecchiata per 30 persone che devono essere le 30 persone più felici del mondo. Le interessa vedere il piano di sopra?, chiede la suora. Posso andare liberamente, dare un'occhiata, aprire la porta che conduce alla torretta. La vista, mi dice, è stupenda.

Quando arrivo al piano superiore so che sto per affrontare una vista che non dimenticherò mai e che mai avrei pensato potesse esistere. Apro la porta di legno. Finalmente sono sulla veranda davanti alle balaustre che una volta avevo visto nel quadro di Monet e tutto intorno a me è... Il mare, il mondo, l'universo, l'eternità stessa. Qui è dove tutto si ferma. Ho trovato la casa. Ho visto la casa. Sono nella casa.

È anche un museo?, chiedo alla suora. No, risponde, è un albergo. Chiedo il nome. Mi guarda stupefatta. Villa Garnier, dice, e sottintende: come altro si poteva chiamare? È lui che l'ha costruita, è morto qui, e anche il suo amato figlio un mese dopo di lui. È da me, essere arrivato fin qui dagli Usa, senza aver guardato il nome della villa. Un qualsiasi libro d'arte mi avrebbe detto che si trattava di Villa Garnier. Chiunque alla stazione me l'avrebbe indicata. Mi avrebbe risparmiato ore e chilometri in giro per la città. Ma poi al contrario di Ulisse sarei arrivato direttamente a Itaca senza mai incontrare il Ciclope, o Circe o Calipso. Non mi sarei mai perso abbastanza per provare l'improvvisa emozione di trovare di nuovo il luogo giusto, di incontrare Nausicaa o sentire gli incantati canti delle sirene. La suora ha ancora una sorpresa per me. Mi consiglia di andare a una scuola di monache là, vicino sulla via Romana il cui nome Villa Palmizi deriva dalle piante che crescevano sulla terra di Moreno. Nella scuola si trovano ancora parti del vecchio maniero.

Ci salutiamo e mi dirigo a Villa Palmizi. Busso. Mi appare una suora, ascolta ciò che ho da dire su Monet, su villa Garnier e i giardini Moreno, poi mi chiede di aspettare. Al suo posto si materializza un'altra suora. Poi un'altra. Sì, dice la terza, questa era parte della casa di Moreno. Mi promette di portarmi al piano superiore. "Monet veniva a dipingere qui ospite dei Moreno. In realtà, dipingeva da lassù", dice indicando un altro piano arrampicato dietro al tetto che non avevo notato: "Questo è l'oblò di Monet". La storia è probabilmente apocrifa, ma ho bisogno di vedere ciò che Monet aveva visto attraverso questa finestra tonda. Esattamente come avevo sentito il bisogno di venire a Bordighera per vedere la città e la casa con i miei occhi. Ma una parte di me ha sempre saputo che vedere la casa, o la città o il campanile non avrebbe cambiato nulla rispetto alla mia stima per Monet o la narrativa silenziosa che ho coltivato grazie a lui. Sono abbastanza privilegiato di trovarmi nel luogo dal quale Monet ha dominato il mondo prima di dipingerlo, non dopo. Tuttavia so che non è per Monet o per la città che sono venuto. Sono venuto per una villa che forse non è neanche villa Garnier. Sono venuto per un passaggio verso un mondo irreale, dove la plenitudine esiste, dove il sole brilla nelle tarde mattinate e nei pomeriggi tranquilli e dove crescono i cedri. Perché Monet è venuto qui? Tutti dicono che ciò che cercava era la luce. In realtà anche lui sta cercando un qualcosa di irreale, etereo, intrappolato dalla luce, ma che è dietro alla luce, oltre la luce. Potrebbe essere un ricordo dell'infanzia quando ha colto il riflesso di un albero in uno stagno, o il ricordo della sua prima visita a Bordighera con l'amico Renoir. Monet cercava di cogliere il ritmo della luce non per il momento presente, ma per quello che sarebbe successo dopo il ritorno a Giverny. Nella sua ultima lettera da Bordighera scrive: "Forse, una volta rientrato a casa, questo mi ricorderà un po' ciò che ho visto". Monet parlava di sé. Ma parlava anche dell'eternità. Come tutti i grandi artisti, Monet confondeva le annotazioni personali con l'opera d'arte.

traduzione di Alessandra Pugliese

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