Secondo molti ammiratori del regista e compositore Roberto De Simone la grande protagonista del suo capolavoro, "La gatta Cenerentola", è Napoli, città figliastra, vittima del potere di una matrigna perversa. Una storia di amore e odio, come quella fra la città e uno dei suoi figli più illustri. C'è l'amore, rappresentato il 21 gennaio al Teatro San Carlo ad apertura della stagione operistica, con la sua attesissima rivisitazione della "Olimpiade" di Giovanni Battista Pergolesi. E c'è l'odio, il disprezzo verso il lassismo del potere politico, colpevole di abbandonare beni fondamentali per la storia culturale della città, a esempio la Biblioteca del Conservatorio di San Pietro a Majella, impreziosita da importanti donazioni dello stesso De Simone. Tanto che il settantasettenne maestro, oggi la voce napoletana più autorevole sui palcoscenici di tutto il mondo, non ha scrupoli nel minacciare: "Ritirerò la mia donazione per protesta. La manderò a Salisburgo, le cui istituzioni musicali hanno mostrato così tanto amore e interesse per la grande storia della musica della mia città. Loro sanno come conservare i documenti e su quelli del conservatorio ci farebbero un monumento".
Come sta Napoli, maestro?
"Viviamo una situazione desolante. Siamo ridotti a rimpiangere persino Achille Lauro, il sindaco armatore degli anni Cinquanta le cui "gesta" tanto bene furono descritte da Francesco Rosi nel film "Le mani sulla città". E considerando che da allora è passato mezzo secolo, dobbiamo dire che le cose vanno addirittura peggio. Il vero problema è che Napoli non ha saputo prevedere, progettare il futuro. Si è fatta piovere addosso. E aggiunga pure la camorra. Ma voglio essere ancor più sincero: anche la camorra sta diventando un "oggetto di napoletanità", a volte esasperato, visto da fuori come un elemento di folklore, qualcosa che identifica. E non è così, perché la gente napoletana è bella, creativa".
Come si è fatta piovere addosso Napoli?
"Creando delle zone di hinterland allargate si sarebbe dovuto prevedere un'industrializzazione che consentisse alla gente di poter vivere, di non fare gli emigranti. Ora quei giovani che vi risiedono quali possibilità hanno? O andare al lavoro nero, otto ore incatenati a un posto per pochi euro, oppure smerciare la droga, fare il piccolo scippo, vivere di piccoli espedienti. Una volta proposi al sindaco Rosa Russo Iervolino: "Signora, lei dovrebbe istituire un premio civico per quei ragazzi napoletani dell'hinterland che resistono alla camorra. Lei dovrebbe emblematicamente consegnare una medaglia al valore a chi, invece di smerciare la droga, la domenica va per le strade a vendere il pane, i carciofi arrostiti, i taralli". Ci sono le famiglie che resistono, ma ci sono quelli che non ce la fanno. E ancora: le pene per i reati di spaccio di droga dovrebbero essere variabili e tenere presenti le condizioni in cui avvengono. Spesso un ventenne viene colpito subito la prima volta con una condanna di quattro anni. Mi dite cosa succederà quando questo ragazzo uscirà? Le istituzioni non sanno distinguere fra un boss responsabile, un politico che chiude un occhio e finge di non vedere e il ragazzo che viene condannato".
A proposito di camorra, cosa pensa di Roberto Saviano?
"È un buon giornalista. Ma un vero scrittore racconta cose che vanno al di là della storia. Ha detto più cose Pirandello sulla Sicilia che non i giornalisti della sua epoca. Saviano è una persona ammirevole, coraggiosa. Ma forse questo suo aspetto troppo mediatico gli nuoce, e nuoce anche a noi napoletani, mentre forse fa comodo alla camorra. Quando si tocca un fenomeno napoletano, si rischia sempre di cadere nel folklore e la componente mediatica fa diventare tutto fiction, déjà vu. La camorra non è solamente l'organizzazione che mette il pizzo, che depaupera la campagna e il suo territorio con la collusione dei politici. Esiste una camorra di cui nessuno parla, ed è la camorra della classe cosiddetta per bene, un tipo di borghesia che ha per sua struttura capillare il privilegio, il figlio di papà che dopo essersi laureato trova subito il posto, perché la maniglia per entrare è camorristica: io telefono all'assessore e quello al giudice del tribunale e dopo sei mesi il ragazzo è sistemato. Diversamente il ragazzo che si laurea ma è figlio dei quartieri dell'hinterland viene subito tagliato via, fatto fuori ai concorsi. Ma è una storia antica. Lei ricorda Don Liborio Romano? Se la faceva con la camorra, fu ministro del Regno delle Due Sicilie e quando a Napoli arrivò Garibaldi divenne deputato del Regno d'Italia. Quando morì circolò un manifesto funebre molto significativo. Vi era scritto: "E' mmuorto Don Liborio/che a Garibalde e a Vittuorie/facette nu refettorio/cane che passate, cacate"".
Nel 2007 lei scrisse su "Il Mattino" un articolo a difesa della tradizionale festa di Piedigrotta, contrariato dai favolosi cachet che la giunta regionale avrebbe speso per ingaggiare "divi consumistici" tipo Elton John...
"Suggerii al governatore della Campania di far agghindare a festa i camion dei netturbini comunali e di farli uscire per le strade di Napoli. Solo allora avremmo assistito spontaneamente alla vera, autentica "Festa di Piedigrotta". Le confesserò: a me il giovanilismo non piace, perché è contro i giovani. Invece sarebbe stato bello vedere gli spazzini svuotare sacchetti di coriandoli per le vie e le piazze e al contempo i cittadini riversare sui camion la spazzatura".
Si risolverà il problema della monnezza?
"A Napoli c'è sempre stata. Ma stavolta mi auguro sinceramente che la gente si ribelli. Ci vorrebbe una rivoluzione. I segnali ci sono tutti: quello che sta accadendo all'università a esempio".
In questi giorni è stata data alle stampe la sua raccolta "Sono sei sorelle. Canti e rituali della tradizione in Campania" (Squilibri edizioni), frutto delle sue raffinate ricerche di etnomusicologo. Per pubblicarla ha dovuto ricorrere a Santa Cecilia?
"Non è un caso se su quest'opera non c'è il sigillo della Regione Campania. Nove anni fa mi rivolsi all'assessore regionale Teresa Armato, alla quale fui indirizzato da Bassolino. Niente ne seguì. Badi bene, non chiedevo soldi, ma il logo, il sostegno morale, per un'opera che scrive della mia gente, che mai più potrà essere rappresentata in questa maniera, per il tipo di ricerca svolta, per il venir meno di certe tradizioni".
Lei chiese alle autorità di recuperare il Conservatorio di Sant'Onofrio. Come andò?
"A Porta Capuana c'era, desolantemente abbandonato, questo palazzo del Quattrocento, sede della storica istituzione dove avevano studiato Paisiello, Cimarosa, Jommelli e Piccinni. Apparteneva al Comune, soggetto alla Sovrintendenza ai monumenti. Proposi di farlo ritornare all'utilizzo originario, dedicandolo esclusivamente a una scuola che settorialmente indirizzasse i giovani all'esecuzione stilistica del recitativo settecentesco e all'analisi della musica popolare, alla tradizione orale, operazioni simili a quelle che svolsero un Béla Bartók o un Villa-Lobos. Sarebbe diventato un luogo di discussione, con un pubblico assai interessato, in parte proveniente dall'estero. E con un'unica biblioteca che avrebbe conservato i documenti cinquecenteschi della musica napoletana. Andai da Bassolino, lui disse "che bello"! Il risultato? Oggi è un anonimo posto di polizia".
Quando diresse il Conservatorio di San Pietro a Majella incontrò altri problemi?
"Cercai di riordinare la straordinaria biblioteca, alla quale feci anche un'importante donazione di spartiti, quadri, documenti eccezionali. Fra le centinaia, la prima stampa de "Lo cunto de li cunti " di Giambattista Basile. Feci dunque un progetto. Risultato: alla prima crisi i tagli rimandarono a casa i due indispensabili bibliotecari che avevo contribuito a far assumere. Il conservatorio è un monumento. Proposi allora: salviamolo, mandiamolo in Germania o a Salisburgo. O a Santa Cecilia al mio amico Bruno Cagli. Attualmente nella biblioteca c'è un solo addetto che vi passa qualche ora alla settimana: è una cosa indegna, vergognosa".
Politica indifferente, ma anche élite intellettuali assenti. Lei compose per Pier Paolo Pasolini una splendida Messa da Requiem. Chissà cosa avrebbe detto sulla situazione di Napoli?
"Sono convinto che avrebbe scritto cose straordinariamente profetiche, provocatorie. Non mi stupirei se, per reazione all'andazzo generale, si fosse addirittura iscritto alla camorra".
Ma per fortuna, maestro, quest'anno si festeggia l'anniversario dell'Unità d'Italia...
"Vi racconterò un aneddoto. A Napoli i Savoia non hanno mai attecchito, se non per celebrare i matrimoni a piazza Plebiscito. A proposito dei regnanti che assistettero al colera nel 1884, circolava un salace commento raccolto da Molinaro del Chiaro, raffinato osservatore dei nostri costumi. Dovete sapere che ai primi sintomi della malattia, intervenivano i poliziotti e isolavano l'individuo afflitto, portandolo a un lazzaretto. Ecco allora cosa suggeriva l'animo popolare: "Guagliò, no cacate mollo/ che 'i guardie veranno in gollo/ dicite a Manuele che nuie cacammo bene/ si favuorite che cacammo tuosto/ vurrem nu' re nuosto" (Gente non cacate molle, perché altrimenti le guardie vi saranno addosso, dite al re Vittorio Emanuele che noi cachiamo bene, ma se vuole che cachiamo duro, ci dia un re nostro)".