Quando a Tychy partì la produzione della 500, che ha contribuito a fare dello stabilimento polacco la punta di diamante della Fiat, una parte del sindacato locale sperava di coinvolgere gli operai italiani, brasiliani e turchi in un'iniziativa globale per aumentare i salari della Fiat Poland. Non solo non se ne fece nulla. Da allora a Tychy non ci sono stati scioperi. Perché ai 500, 600 o 800 euro netti mensili - a seconda dei livelli d'inquadramento - magari corroborati da un premio annuo di 2 mila euro (come quello che si sono portati a casa mediamente gli operai polacchi grazie al 2009 da record), in Slesia non vuole rinunciare nessuno, anche a costo di lavorare 42 sabati e 11 domeniche, come nel 2009.
In Polonia l'orario di lavoro legale è di 48 ore e la retribuzione lorda media di un'operaio Fiat è di 11 mila e 580 euro, rispetto ai 24 mila dell'Italia (differenza che scende molto se si tiene conto del reale potere d'acquisto). In Brasile, altro caposaldo della new Fiat, l'orario è di 44 ore e la retribuzione media di 13 mila e 140 euro (fonte: l'azienda). In Turchia le relazioni industriali sono ancora all'età della pietra e c'è persino qualche fazione che si rifà ai Lupi grigi, anche se lavorare nello stabilimento di Bursa è un vanto: se ti infortuni, non sei fuori, come accade nella fiorentissima industria tessile locale, ci sono l'assicurazione sul lavoro e il sindacato.
È alle fabbriche italiane che il piano strategico chiede di mettersi ventre a terra. Così come, al di là dell'Oceano, è stato già chiesto a una Chrysler brutalmente ridimensionata dai dolorosi tagli prodromici al rilancio sponsorizzato da Barack Obama. Sono state chiuse le fabbriche di Fenton, Missouri, e del Delaware e l'organico è sceso da 54 a 47 mila unità. Ma con il 55 per cento della Chrysler in mano al sindacato, Marchionne si è comunque assicurato la pace sociale per un bel po'.
Nasce dunque all'estero la sfida che la Fiat ha lanciato ai sindacati italiani. La scommessa è raddoppiare la produzione domestica nel giro di cinque anni, portandola dalle 650 mila vetture del terribile 2009 al milione e 400 mila previsto per il 2014. Data per scontata la chiusura di Termini Imerese, la contropartita è la richiesta, per gli altri, della massima flessibilità.
Quando il mercato tira, Marchionne chiede alle linee di montaggio di lavorare su tre turni di 8 ore, senza fermarsi la notte e il sabato. Non che oggi queste possibilità siano escluse, anzi. "A questi ritmi però, anche a causa della crisi, si avvicinano solo Melfi e lo stabilimento in Val di Sangro, mentre dall'estate Cassino dovrebbe passare da 10 a 15 turni la settimana, con la possibilità di raggiungere i 18 se le vendite correranno", dice Roberto Di Maulo capo del sindacato autonomo Fismic. "Il vero senso della richiesta di Marchionne è cambiare i turni a seconda del mercato, senza impedimenti: nel 2005 Melfi fece una lunga lotta contro il superamento dei 18 turni, che la Fiat voleva per star dietro al lancio della Grande Punto. Da allora però non ha mai più raggiunto quei livelli produttivi", spiega Di Maulo.
Per il sindacato, ovviamente, la partita è durissima. Deve rinunciare a spazi di manovra in cambio di una promessa che dipenderà dal successo di modelli tutti da venire. Rispondere picche, però, vorrebbe dire tagliare le gambe a ogni speranza di rilancio della Fiat e, forse, dell'intera industria italiana. Riccardo Varaldo, uno dei più noti economisti d'impresa italiani, presidente della Scuola Superiore Sant'Anna di Pisa, osserva infatti che il piano di Marchionne rappresenta "una risposta organica e coraggiosa a una sfida ormai globale, anche se può sembrare un'impresa impossibile".
Se gli impegni chiesti dalla Fiat non sono un caso unico nell'industria italiana, per Varaldo la novità è stata "mettere l'accento sul confronto con gli stabilimenti stranieri per evidenziare come, nella competizione globale, i vincoli sono tremendamenti aumentati". Le fabbriche oggi richiedono forti investimenti in tecnologie e impongono tempi di funzionamento più lunghi: "Per far rendere gli investimenti occorre sfruttarle al meglio delle possibilità, altrimenti il costo del lavoro per ogni unità prodotta aumenta eccessivamente e spinge l'azienda fuori mercato", dice l'economista.
La prima questione spinosa è il rilancio di Pomigliano d'Arco, a mezz'ora di strada da Napoli. "Il piano comporterà sacrifici che saranno ben remunerati", dichiara Giovanni Sgambati, segretario della Uilm campana, "giacché, per esempio, il lavoro notturno in Fiat è pagato di più rispetto a quanto previsto dal contratto nazionale. Lo stipendio medio, per un operaio del terzo livello, il più affollato, si aggira intorno ai 1.300 euro netti; se si lavora in modo regolare, senza essere colpiti dalla cassa integrazione. Se ci mettiamo d'accordo per incrementare la produttività, in busta paga possono arrivare altri 100 euro".

Il fronte sindacale, tuttavia, sembra pronto alla trattativa. Dice Bruno Vitali, segretario della Fim-Cisl: "Dobbiamo condizionare la flessibilità a miglioramenti economici e di partecipazione. Il sistema del World Class Manufacturing, mutuato da Toyota e promosso da Marchionne, prevede che gli operai abbiano un dialogo fitto con i capi, i quali in Fiat hanno in certi casi un atteggiamento antico, che genera soprusi e spinge alla ribellione". La sopravvivenza di Pomigliano, è il pensiero di Vitali, è già di per sé un'accettabile contropartita: "Abbiamo fatto un'assemblea aperta, con molti operai non iscritti alla Fim, e a emergere era soprattutto la sensazione di scampato pericolo. È inutile fare le barricate adesso per un turno che, ad andar bene, la Fiat ci chiederà di effettuare davvero tra due anni". In generale, anche un economista come Varaldo osserva che "l'aumento della produttività è una scelta che non può essere rinviata e i sindacati devono fare un salto culturale: l'importante è far partire quel circolo virtuoso di aumento di produttività e di volumi realizzati da tradurre in incentivi salariali che tengano conto del maggior impegno e responsabilità richiesti ai lavoratori".
Una Fiat in grado di raddoppiare la produzione, se avrà successo, può dare un messaggio forte a tutti. Negli ultimi mesi governo e commentatori hanno sostenuto che l'industria italiana ha retto meglio di altre grazie alla voglia di rimboccarsi le maniche e al genio delle migliaia di piccole imprese. Per Varaldo, però, la lezione della crisi è diversa: "Testimoniare fiducia ai piccoli imprenditori è doveroso, considerando quanto hanno sofferto. Bisogna distinguere fra simpatia e realtà: chi dice che piccolo è meglio non sa leggere la gravità della situazione che la recessione ci ha lasciato in eredità. Se studiano i motivi per i quali l'economia italiana cresce poco, si vede che uno di questi è che abbiamo esaurito la spinta espansiva delle piccole imprese e dei distretti", spiega l'economista. E aggiunge: "il made in Italy è sotto pressione perché si è ritrovato con un eccesso strutturale di capacità produttiva e di offerta. Questo ha innescato una concorrenza che toglie spazio alla possibilità di far leva su piccoli incrementi di qualità per sostenere vendite e prezzi. La conseguenza", conclude Varaldo, "è una caduta verticale dei livelli di redditività". Forse è arrivato il tempo di reagire.
da Istanbul ha collaborato Margherita Belgiojoso