Ha 25 anni e con il romanzo "Acciaio" è in testa alla cinquina del premio. Ma il suo sogno è il posto fisso nella scuola pubblica, perché «questo è un gioco, poi verrà la vita vera». Parla la scrittrice rivelazione Silvia Avallone

Silvia Avallone è un talento precoce lanciato precocemente nello star system della letteratura italiana. A 25 anni, con un romanzo d'esordio, "Acciaio", ha scalato le classifiche della narrativa e si è conquistato il primo posto tra i finalisti del prossimo premio Strega. Ad incontrarla a pochi giorni dal verdetto del trofeo letterario più agognato d'Italia, ci si aspetterebbe perciò una qualche vanità, o almeno un po' di impertinenza, o anche lo stordimento di un debutto vorticoso. Tutto insomma, ma non l'assoluta semplicità di una ragazza dei nostri tempi con l'aspetto, il linguaggio e la sostanza umana di una precaria come tante. Seduta al tavolo della cucina di un piccolo appartamento bolognese, dove abita con un libraio coetaneo che sposerà a ottobre, è una giovane donna col dono della spontaneità quella che condensa per noi la sua avventura insolita, riducendo ad accessori le lodi sperticate e le critiche feroci che l'hanno accompagnata.

Ci sveli, per cominciare, come si diventa il caso letterario dell'anno?
"Mandando per e-mail il primo capitolo di un libro a un editore competente".

Troppo facile. Che cosa c'è sotto?
"Niente. Non sapevo nulla di mercato editoriale. Ho scelto Rizzoli perché in genere ha pochi esordienti e ho pensato di avere più chances. Certo, non mi aspettavo di essere richiamata dopo pochi giorni da un editor entusiasta e capisco che a occhi esterni sembri un po' il sogno di Cenerentola".

Un po'. Chi impersona qui il principe azzurro?
"Michele Rossi che segue la narrativa Rizzoli. Forse perché è giovane e pieno di fervore, fa l'editore come si faceva negli anni Cinquanta. Mi ha detto di correre a Milano e mi ha invitato a pranzo. Così è cominciato questo viaggio meraviglioso".

Dove lei sembra a suo agio, quasi le appartenesse da sempre.
"Qualche segno di spavento c'è, ma io mi considero l'opposto di Cenerentola. Sono a casa e con i piedi per terra. Lo Strega è un bellissimo gioco che, comunque vada, finirà presto. Come finiranno le attenzioni della stampa. Io so che il dopo è come il prima e la vita di sempre è fatta d'altro".

Di che cosa?
"Degli ultimi esami per la laurea specialistica in lettere, di un un matrimonio imminente, della ricerca di un lavoro stabile e della trama per il prossimo libro".

Un universo quieto che sta agli antipodi di quello descritto nel suo romanzo. Lì c'è una storia dura, un mondo operaio desolato con giovani senza appartenenza e speranza.
"Quella è la mia generazione che lavora in fabbrica, gente diversa dal passato che pochi conoscono o vogliono conoscere. Sono i giovani operai che non rispettano le vecchie categorie, hanno problemi nuovi e portano tutto il peso di questo grado zero a cui si è ridotto il lavoro".

Per questo si drogano prima di affrontare la fabbrica, sballano, si iscrivono al sindacato ma votano Berlusconi?
"Io vorrei che non fossero giudicati. I loro problemi non possono essere affrontati nel modo tradizionale, né a sinistra né a destra. Se uno di loro, come dice un mio personaggio, desidera solo la Golf Gt e se ne frega della giustizia sociale, di cosa è colpevole? Il problema è che non si sentono rappresentati né politicamente né culturalmente. Anche le grandi narrazioni che un paese fa di se stesso, attraverso i giornali e specialmente la tv, li escludono senza eccezioni".

Lei no, però. Da dove nasce questo interesse?
"Dal fatto che sono impastata con loro fin dall'infanzia e molti sono miei amici cari. Hanno finito con me la terza media e poi sono andati a trattare l'acciaio in posti dove il lavoro è primordiale, un corpo a corpo con la materia come nei secoli scorsi, e dove il rischio di morire è strutturale. Ma fuori il mondo è cambiato e nessuno ha la lungimiranza di dare un'interpretazione moderna ai loro bisogni".

Lei colpisce nel segno, Avallone, sembra più un sociologo del lavoro che una scrittrice.
"Sono semplicemente una che conosce a fondo la sua generazione. Ho vissuto tra Biella e Piombino, due città divise culturalmente come lo erano i miei genitori, un'insegnante elementare piemontese e un commerciante napoletano con un negozio di casalinghi a Piombino. Erano diversi in tutto e infatti si sono separati quando avevo due anni, lasciandomi almeno un doppio occhio per interpretare il mondo".

Le è stato utile?
"Necessario, direi. Ma nella mia famiglia c'erano anche due nonni, un'operaia e un ferroviere grandi divoratori di romanzi. Le loro case erano piene di libri. Leggendoli trovavano la descrizione di altri mondi e quindi la libertà".

Nasce da lì la sua indole narrativa?
"Forse all'origine, ma di dover scrivere l'ho saputo a otto anni, davanti a un orto autunnale".

Anche questo sa un po' di favola...
"Eppure è così. Studiavo a memoria "Novembre" di Pascoli e guardavo un orto che ingialliva. È stata un'illuminazione. Ho capito, come può farlo una bambina ma in modo radicale, che la parola aggiunge e trasforma la realtà, dà voce all'invisibile".

E infatti ha esordito come poetessa.
"Con un piccolo libro che ha avuto un piccolo successo in un piccolo ambiente. Ma con alle spalle una scuola lunga e una gavetta dura accanto a poeti veri, come Milo De Angelis e Antonio Riccardi".

"Acciaio" è anche un romanzo di formazione che descrive l'adolescenza di due ragazze quasi simbiotiche eppure diverse. Una vuol diventare ministro del Lavoro, l'altra velina. C'è anche qui dell'autobiografia?
"No, anzi, come dice Flaubert, è un'avventura che mi sono regalata. E l'ho fatto proprio perché non l'ho vissuta. Anna e Francesca sono le due risposte estremizzate all'ambiente dei casermoni desolati dove sono cresciute. L'una sogna di avere un giorno il potere di modificare la realtà, l'altra accetta il messaggio dei tempi: fai il furbo e prendi la scorciatoia per i tuoi cinque minuti di gloria. Alla loro età io scelsi senza esitazioni la scuola".

Con quali speranze?
"Mi è stato chiaro da subito che la scuola è un'occasione. Vedevo i miei coetanei che entravano negli altiforni e poi chiedevano a me istruzioni sul mondo. Ho sempre studiato, ho vinto tutte le borse di studio possibili. Fino a pochi mesi fa vivevo alla casa dello studente di Bologna, un ambiente pieno di spunti per un altro romanzo".

In quello che forse vincerà lo Strega ha messo anche l'isola d'Elba, stagliata di fronte a Piombino, come metafora di un altrove possibile. Non posso non chiederle qual è la sua Elba.
"Scrivere libri, avere una famiglia e ottenere un posto fisso nella scuola pubblica".

Dice davvero? Sembra il sogno delle signorine di sessant'anni fa.
"Già. Si torna indietro. Ma è la vostra generazione, quella dei padri, che deve sentirsi in colpa. Avete voluto tutto e ve lo siete goduto fino in fondo: lavori gratificanti e facili, tanti amori, se non va bene si cambia, e per i figli pazienza. Ora noi siamo qui, quasi tutti figli di separati, a fare famiglia il più presto possibile, a cercare il lavoro più stabile rimasto all'orizzonte. E la scuola pubblica è di nuovo il posto più desiderabile. Ma poi perché si meraviglia? In fondo la vita che cos'è?".

Non lo sappiamo più. Ce lo dica lei.
"È un percorso pieno di buchi che vanno riempiti con un lavoro e con qualche relazione umana che stiano in piedi. Nel bene e nel male".

LEGGI ANCHE

L'edicola

25 aprile ora e sempre - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso

Il settimanale, da venerdì 18 aprile, è disponibile in edicola e in app