Questa chiesa immensa è il simbolo di una Polonia mai davvero cristianizzata

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Ogni volta che mi capita di attraversare la Polonia occidentale non riesco a trattenermi, devo andarci. Qui il paesaggio è pianeggiante, dunque già a decine di chilometri di distanza si vedono la cupola scintillante e il campanile slanciato che gli sta accanto. Nel sole del primo pomeriggio questa visione fra i campi verdi sembra una fata morgana. È Lichen. La più grande chiesa in Polonia e, a quanto pare, l'ottava per grandezza in Europa. La sua costruzione è durata dieci anni, ed è terminata nel 2006. Anche da vicino fa l'effetto di un miraggio. È veramente enorme. In questa zona rurale, contadina, sembra arrivata dal cosmo, sembra appena atterrata. Ha 365 finestre, quanti sono i giorni di un anno e 52 porte, quante sono le settimane. Si entra salendo 33 gradini, come gli anni di Cristo.

Gli specialisti di architettura e di estetica affermano con coro unanime che si tratta di una chiesa orribile. In effetti non ricorda per nulla nessuna delle chiese moderne. Non è neanche facile individuarvi dei riferimenti alla tradizione nazionale. È una sorta di gusto da fiera, di eclettismo popolare, di gioiosa compilazione. Antico Egitto, Babilonia, colonne, pilastri. Una cupola come quella di San Pietro e ettari ed ettari di alluminio dorato che finge di essere oro.
L'interno ribolle di dettagli, di rifiniture, di maschere, di bassorilievi, di allegorie, di ornamenti, di caos euforico, all'interno del quale incedono gruppetti di fedeli in muta ammirazione. È una chiesa di gente semplice. È stata ideata da un tranquillo parroco di campagna. La vide in sogno, e la Madonna gli mandò un segno, gli ordinò di realizzarla. E lui ci riuscì, servendosi solo dei contributi dei fedeli. Offerte, spesso di pochi centesimi, elargite da vedove, da pensionati. Nessuno dei potenti di questo mondo vi ha investito neanche un soldo, né ha influito sulla forma dell'impresa. E dunque donne anziane in abiti a buon mercato e uomini esausti dal lavoro osservano la loro opera. Passeggiano nella luce multicolore che scorre dalle gigantesche vetrate. Le loro sagome minute si perdono nello spazio smisurato, ma allo stesso tempo si sentono come a casa propria.

A dir la verità qui il cristianesimo si smarrisce nel fragore di forme, colori, citazioni. Si trasforma in una peculiare variante di una religione tribale o nazionale. L'iconosfera è costituita anzitutto dal racconto della patria. Del suo martirio, delle sue sofferenze, dei suoi grandi momenti storici. Vagando nella cattedrale di Lichen si ha l'impressione che Dio si sia occupato unicamente della Polonia. Che solo della Polonia importasse alla Madonna. D'altronde chissà, forse era polacca anche lei... I quadri, le statue, le cappelle, i monumenti, le figure e le immagini nella chiesa e nel terreno dell'enorme parco che le si stende intorno raccontano esclusivamente una lezione di storia polacca. Passeggiando per il quasi paradisiaco giardino rinveniamo qua e là allegorie dei tormenti della nazione fra le nevi siberiane, o nei campi di concentramento hitleriani. Esse vengono benedette da figure di vescovi polacchi e di santi polacchi, ovviamente con una menzione particolare di Giovanni Paolo II.
Lichen - nonostante le sue premesse internazionalistiche - è una fuga totale dall'universalismo cristiano. È la chiesa di una comunità nazionale, priva però di evidenti accenti nazionalistici. In quest'opera popolare e plebea possiamo ritrovare però alcune profonde intuizioni della modernità. Abbiamo qui una sorta di parco tematico in cui è racchiuso il racconto della nostra identità. Questa identità non è affatto costituita dal nostro cristianesimo col suo universalismo e il suo progetto di redenzione. In ogni caso esso non è così importante come molti desidererebbero. La religione ci è generalmente servita per identificare chi è dei nostri e chi è straniero, e non per rimodellare le nostre coscienze. In altri termini, non siamo mai stati cristianizzati sul serio e oggi, che il cristianesimo si trova su una certa difensiva, con grande libertà facciamo ritorno a ciò che è pre-cristiano.

Costruendo la più grande chiesa del Paese facciamo sì che noi stessi, che il nostro destino nazionale ne diventino abitatori. Non ci siamo mai sentiti minacciati nel nostro cristianesimo, perché non lo abbiamo mai vissuto come qualcosa di veramente profondo. Come collettività invece abbiamo più volte avuto motivi di temere. Il popolo, quando gli si consente di agire in modo autonomo, è capace di innalzare opere che esprimono una saggezza alla quale i pensatori che parlano in suo nome arrivano con grande fatica. Oppure non vi arrivano affatto.