Fin da piccolo ho sempre pensato che la bellezza, quella della gente, fosse una bellezza delle differenze. Mi colpiva il fatto che non ci fossero due persone, e soprattutto due persone belle, uguali fra loro. Che la bellezza potesse cambiare di volto in volto, di corpo in corpo, in maniera imprecisa; eppure esserci, essere lì, scopri che la bellezza non è mai completamente ferma, è instabile, dispettosa, velocissima nel sottrarsi al mio sguardo che di nascosto cercava di catalogarla, pronta a scomparire e riapparire in un gesto, una fossetta, un incantamento, uno sbadiglio, un broncio, una smorfia, un improvviso inebetirsi dell'espressione, un grattarsi una gamba (lì, dove capita che pruda più spesso, nel mezzo della parte posteriore della coscia), sistemarsi una ciocca di capelli, intristirsi, sorridere. Soprattutto, della bellezza mi colpiva che potesse risiedere in un volto o in un corpo qualsiasi (non necessariamente bello). Che cioè potesse starci senza prevaricarlo, renderlo popolare, fargli pubblicità. Dargli un successo di nicchia.
Se c'è un principio inapplicabile alla categoria della bellezza, è quello dell'uguaglianza. E non perché l'umanità vada divisa in belli e brutti (che poi è la discriminazione più diffusa, dopo quella fra ricchi e poveri), ma perché la bellezza tende a occultarsi, più che a farsi vedere. A dubitare di sé. A volte, finanche a disinteressarsene.
Soprattutto da molto giovane, non ha tanta voglia d'investire su se stessa (perché mai dovrebbe trovarsi un lavoro, potendo usare il tempo per giocare?). La timidezza congenita della bellezza, questa sua attitudine a non sputtanarsi, a mantenere il segreto fornendo saltuarie prove sintomatologiche della propria esistenza, a non voler darsi in pasto al facile apprezzamento degli altri, è quanto la rende definibile soltanto per approssimazione (quindi indefinibile), e perciò refrattaria alla riproduzione seriale. Anche le persone di conclamata bellezza, quelle a cui non riesci a trovare un difetto, hanno la curiosa capacità di lasciarti interdetto, quando le guardi. Come ti ponessero un problema piacevolmente complicato da risolvere. Quello di non capire cos'è che di loro ti attira davvero.
In fondo è questo, il bello della bellezza. Che non sai mai come si comporta, né dove sta. E non ce n'è una uguale a un'altra. Non è che ognuno (come si dice comunemente) è bello a modo suo: è che ogni bello lo è per ragioni incomprensibili. Nell'amore, la scoperta della bellezza viene vissuta come un merito, di cui ci si sente titolari indipendentemente dal successo o dal fallimento che conseguiranno al dichiararsi. Non un "L'ho vista prima io", ma un "L'ho capita prima io". E non è un caso che ci s'innamori in seconda battuta della stessa ragazza, per emulazione di un amico che se n'è innamorato prima e ce ne ha confidato le ragioni (quante amicizie vanno in malora per questo).
Fuori dell'amore, nel cosiddetto libero mercato, dove le intenzioni non sono così nobili, per trovare gente bella bisogna fare scouting. Industriarsi per scovarla, lanciarla, metterla sotto contratto, inventarle un pubblico. È da qui che nasce il relativo business. Se fino a un po' di tempo fa questo tipo di ricerca era appannaggio della moda e del cinema (che ha, o dovrebbe avere, un atteggiamento più aristocratico in materia, non essendo la bellezza un requisito necessario dell'identità di un attore), con l'avvento dei reality show, della telecamera che investe indiscriminatamente in normalità risolvendo all'origine il senso d'inferiorità delle persone qualsiasi e dimostrando che chiunque può diventare famoso (meglio: che si può diventare famosi proprio in ragione del non essere nessuno); che non soltanto il talento e la cosiddetta professionalità (che presupporrebbe il saper fare qualcosa), ma addirittura la bellezza riconoscibile secondo i canoni estetici del mondo dello spettacolo, non sono prerogative necessarie per arrivare al successo; questo impegno a speculare sulla bellezza è andato progressivamente trasformandosi da promozione in autopromozione, da management in impresa individuale.
La gente giovane e di gradevole aspetto ha cominciato a domandarsi (primo step): "Vuoi vedere che sono bello?"; poi: "In fondo non sono mica male" (secondo step). Infranto il tabù della modestia, s'è detta: "Cos'ho io di meno di questi qui che vedo passare in tv tutti i giorni?" (terzo step); e per chiuderla definitivamente l'ha buttata in politica: "Per quale accidente di motivo dovrei lavorare, ammesso poi che un lavoro lo trovassi, se posso diventare famoso?" (quarto step). E vai col "progetto" di sé.
Ah, il "progetto". Questa nuova, indistinta categoria dell'immaginario moderno che ammortizza la disperazione e alimenta l'illusione di farcela, e soprattutto di star facendo qualcosa. In giro c'è un sacco di gente senza lavoro, che ha un progetto. Provate a fermarvi per strada in un orario indicativo, tipo le undici di mattina, con qualcuno che non vedete da un po' e di cui ricordate qualche ambizione di successo rimasta inevasa nel corso degli anni: molto probabilmente starà "lavorando a un progetto" (fosse per questo, ora che ci penso, che hanno inventato la categoria del "lavoro a progetto"?).
Inevitabile che una bellezza rivolta al conseguimento di un utile finisca per essere uguale per tutti. Inevitabile che, per battere la concorrenza, faccia di tutto per rendersi comprensibile. Inevitabile che una bellezza così ridotta fondasse un nuovo ego, una nuova soggettività politica: la bella gioventù che investendo su se stessa sostituisce il diritto al lavoro con il diritto a diventare famosa. Questa proiezione ha determinato un'estetica uniforme nei ragazzi che aspirano alla visibilità. Di loro, colpisce soprattutto l'uguaglianza dell'espressione che assumono davanti all'obiettivo. Come non avessero niente da chiedere. Vogliono piacere, ma sembra non esserci nulla che li attragga, un passo dopo il fotografo. Che il loro mondo finisca esattamente nella cornice in cui sono ritratti. Sono belli, ma grevi. Esibiscono una fissità da lista d'attesa. Mostrano il meglio che hanno, lo evidenziano prima che possono, facendo sì che poi la selezione si concentri sulle parti singole, che riducono il corpo al pezzo migliore.
E non c'è nessuno, o quasi, che mostri quella lieve, tipica indifferenza di chi è solo di passaggio, e ha introiettato la sua bellezza al punto di trattarla con distacco, e sembra intenzionato a tutt'altro, come fosse lì per dirti che ha una vita molto più interessante che lo aspetta e in cui non vede l'ora di tornare; una vita di cui tu non sai niente e immagini diversa dalla tua, per aver lasciato dei segni così meravigliosamente incomprensibili su un corpo che ti parla. È di quella vita alle spalle che non c'è traccia, nella bellezza massificata che ci circonda. Una bellezza che ha smarrito il senso dell'indecifrabile, e s'è messa a cercare lavoro.
Diego De Silva è scrittore e sceneggiatore. Il suo più recente romanzo è "Mia suocera beve" (Einaudi)