Aiutare i detenuti. Parlare di un contadino che scriveva sonetti. Vedere l'"Ifigenia" in un teatro di campagna...
Che giornata lunga è stata, questa. Giovedì, 16 giugno. Mi sono alzato alle sei del mattino, ho bevuto un caffè, ho preso la macchina e ho fatto centocinquanta chilometri circa a est fino alla prigione di Uherce, una località vicina alla frontiera ucraina. Ogni tanto ci vado per parlare con i carcerati rinchiusi in un reparto speciale, destinato a chi è dipendente dall'alcol e dalle droghe.
I terapisti affermano che le visite della gente da fuori aiutano la terapia. E quindi ci vado ogni paio di mesi e, semplicemente, parliamo. Io stesso, tempo fa, tanto tempo fa, sono stato in galera, e questo mi rende tutto più facile quando ho davanti a me 30 tizi, tatuati e dall'aria cupa, il cui tratto principale è la mancanza di fiducia. Mi metto lì e semplicemente parlo a loro della vita, di come io stesso sono stato un carcerato, delle mie avventure con l'alcol, di tutte queste cose che loro possono sentire vicine. A volte accendo un proiettore e mostro loro una foto dei miei viaggi.
Scelgo luoghi belli e inabitati: Mongolia, Siberia, Estremo Oriente. Guardano nella semioscurità lo schermo, l'infinità della steppa, l'immensità di Altaj e io immagino che le loro anime stiano sperimentando una sorta di purificazione, un qualcosa che somigli alla nostalgia e che, giusto per la durata di quel breve momento, lascino questa sala stretta, surriscaldata, un po' puzzolente. Ricordo bene che, quando stavo in prigione, il mio tesoro più prezioso era una cartolina con l'immagine di montagne in autunno. La fissavo per ore e ore. Era come una finestra aperta su un altro mondo. Le montagne autunnali erano montagne che anche oggi svettano intorno alla prigione che vado a visitare. Tali ironiche sorti ci prepara il destino.
Due ore più tardi mi sono spostato 200 chilometri più a nord. Nella cittadina di Krasnystaw dovevo fare una chiacchierata per il "Tygodnik Powszechny", forse il settimanale più ambizioso e prestigioso della Polonia. Dovevamo parlare di Stanislaw Bojarczuk con un collega. Bojarczuk visse 86 anni senza lasciare mai il suo villaggio natio. Da bambino frequentò la scuola per pochissimi mesi. Imparò a leggere e a scrivere, mai però apprese le regole di ortografia e grammatica. Per il resto, la sua fu la vita di un agricoltore povero.
Si potrebbe perfino dire che la sua povertà spesso rasentasse la miseria più nera. Ci ha lasciato un migliaio di sonetti. Sì: classici nella forma, straordinariamente sublimati, poeticamente raffinati come solo un sonetto sa essere. Scritti il più delle volte su pezzetti di carta strappati, sul margine di un giornale, su qualsiasi cosa sotto mano. Questo autodidatta contadino assorbì la più difficile delle forme di poesia, la fece sua per descrivere il suo mondo. Il villaggio polacco della fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento non era un luogo allegro. Era un luogo tetro. Miseria, ignoranza, declino della schiavitù plurisecolare facevano del contadino polacco un essere estremamente arretrato socialmente. Invece il nostro poeta seppe nobilitare questa esistenza quasi animalesca, sublimarla. Portando al pascolo le sue due vacche magre, spesso soffrendo la fame, entrava in dialogo con il patrimonio della cultura europea. Leggeva Dante e Petrarca in traduzione. I libri gli venivano prestati dall'élite locale. Verso la fine della vita, ormai ai tempi del comunismo, ricorreva alla biblioteca pubblica. Di questo abbiamo parlato davanti al microfono con il collega, nella cittadina di Krasnystaw, dove Bojarczuk si recava a piedi dal suo villaggio per le messe domenicali. E io stesso ho ricordato le mie origini contadine e la mia educazione frammentaria.
E poi, all'imbrunire, sono andato una quarantina di chilometri a ovest, al villaggio di Gardzienice, dove Wlodzimierz Staniewski dirige il suo teatro che porta lo stesso nome. In quella sperduta provincia, in mezzo a prati e pascoli, Staniewski tenta di infondere in Euripide una nuova vita. Questa sera hanno messo in scena "Ifigenia in Tauride". La mezzora dello spettacolo è stata l'essenza dell'energia teatrale. Il movimento, la danza, il suono, il canto e la parola si sono fusi in una materia elementare, una forza primordiale che rapiva i corpi sia degli attori sia degli spettatori disposti intorno a semicerchio. È stato come se una fiamma nata nel profondo dei corpi, della loro biologia, stesse divorando gli uni e gli altri. Quando tutto era finito e tutti se ne sono andati, non avevo più le forze per alzarmi. Dopo una sola giornata che era cominciata con un normale caffè.
traduzione di Joanna Kaczynska