Il Capo è effigiato su un totem illuminato alto dieci metri che domina la vallata, il pugno alzato, il sorriso spavaldo, è sulle magliette, impegnato a tagliare a metà l'Italia, è sulle etichette delle bottiglie di vino, sui cartelloni accatastati in uno stand in mezzo alle foglie morte, che riassumono la cavalcata della Lega negli anni eroici. Umberto Bossi è ovunque: un Piccolo Padre in camicia verde, nelle feste di fine estate del Carroccio a Palazzago, a Bolgare, ad Alzano Lombardo, in Val Seriana, la roccaforte della Lega dove il partito governa e alle elezioni viaggia tra il 30 e il 40 per cento.
Sui maxischermi passa a rullo un video sfocato. Bossi al congresso di fondazione della Lega, il primo "congress nassjonal", in una sala sotterranea del Jolly Hotel di Segrate. Bossi scapigliato al primo giuramento di Pontida nel 1990 che arringa la folla da un palco mediorientale, molto affollato e accaldato, Bossi alla marcia sul Po, accompagnato dalle cornamuse di Braveheart...
Epica, reliquia, culto della personalità. Papawojtylizzazione di Bossi: santo subito. Immagini di vitalità passata che contrastano col presente incerto. E comunicano l'idea che il meglio è alle spalle. "Per noi è un mito", taglia corto Aldo, un volontario della Berghem Fest di Alzano Lombardo, la più antica e importante manifestazione della Lega. Per la base il Leader è già uscito dalla cronaca per passare alla leggenda. Ma nella cronaca Bossi c'è ancora, a fatica.
Il 19 settembre compie settant'anni, data indicata da molti come l'ora delle scelte: un clamoroso ritiro o l'indicazione di una nuova generazione cui passare la mano. E per il Senatur non è un compleanno felice. Lo scivolone a casa, con un braccio fratturato, è l'ultimo episodio di una stagione tormentata: la voce che è un sibilo, i comizi ridotti a una sequela di insulti e pernacchie, la voglia di fuga, la necessità di sottoporsi a vertici estenuanti come quello sulla manovra, dove il Senatur ha dovuto cedere al Pdl sulle pensioni nonostante i ripetuti altolà. Un clima brezneviano: il figlio Renzo, in poche ore, ha dato due versioni contraddittorie sull'incidente (è caduto dal letto, anzi è scivolato). Rassicurare, negare tutto. "Il Grande Capo è in stra-forma!", si sbracciava Calderoli ad Alzano.
Un declino fisico che riflette la decadenza politica. Se si indaga tra i militanti il ritornello suona familiare: restare uniti, non litigare, il momento è difficile ma ce la possiamo fare, i dirigenti dovrebbero ascoltarci di più... Rassegnazione. Depressione. Umori cupi, da costola della sinistra, da compagni, da festa del Pd. Quante volte si sono sentiti gli appelli a non dividersi tra le salamelle delle feste dell'Unità? A Bergamo ai tavoli verdi servono casoncelli, involtini di verza e un terrificante stracotto d'asino, ma il mood è lo stesso. "Non mi piace per niente questa rivalità tra i nostri", sbotta Gianfranco, 74 anni, ex muratore, lui le feste della Lega le ha fatte tutte. "L'indipendenza della Padania è il nostro obiettivo, senza quello diventiamo come tutti gli altri.
Ma a Roma se lo sono dimenticato: Maroni è un signorino, Calderoli parla come piace a noi, la verità è che dopo Bossi non c'è nessuno". Il ministro dell'Interno firma autografi e bacia ragazze, ma la sua popolarità nelle valli bergamasche non è travolgente e teme di essere additato come traditore. E infatti invita a non dare retta alle "cazzate" dei giornali: "La Lega è una squadra con un grande allenatore".
Ma tra i notabili leghisti è ormai profondo il dubbio che Bossi stia sbagliando tattica di gioco. "L'uomo è oltre la siepe", sintetizza un deputato. Un altro parlamentare è ancora più ruvido: "Bossi è per i leghisti quello che Enrico Berlinguer era per il Pci, non poteva essere discusso. Ma cosa sarebbe successo se fosse toccato a lui gestire la fine del comunismo?". Domanda oziosa, dato che il segretario comunista scomparve tragicamente a Padova cinque anni prima della caduta del muro di Berlino.
Ma il paragone regge, perché con il tramonto fisico e politico di Bossi la Lega teme di aver smarrito il sol dell'avvenire che prima era il federalismo e ora chissà. La grande paura di non riuscire a superare il muro, che per la Lega ha un nome, è il muro di Silvio.
Berlusconi è un innominabile nelle feste della Lega. Ne sa qualcosa il segretario del Pdl Angelino Alfano: appena ha provato a indicarlo come il candidato premier del 2013 alla Berghem Fest, è stato trafitto dai fischi e dal coro (piuttosto stentato, in verità) "Maroni-Maroni". Il ministro dell'Interno era accanto all'ex collega della Giustizia, prove di amorosi sensi tra delfini, interrotte dal fragoroso ministro Calderoli che a Roma si comporta da lord inglese e a Bergamo si esibisce al naturale: battutacce a sfondo sessuale ("Con il microfono alla bocca mi sento un po' Marrazzo..."), isteria da mancata visibilità ("Mentana, lei mi fa parlare dopo un'ora, farò lo sciopero della sete come Pannella!") e una modica quantità di diti medi alzati contro Montezemolo, Confindustria, poteri forti, giornali: "Tiè, tiè, tiè...".
Uno spettacolo istruttivo. Se questo è il dopo, il settantacinquenne Berlusconi può dormire sonni tranquilli, nonostante la pulsione dei militanti leghisti che vorrebbero liberarsi dal suo abbraccio. E al settantenne Senatur tocca tenere duro come faceva il decrepito Tito con la sua Jugoslavia, ben sapendo che dopo di lui tutto si sarebbe disgregato. Il Carroccio, che a Roma si muove in apparenza con la compattezza della testuggine, nelle regioni del Nord è una federazione di feudi regionali che stanno insieme a malapena. In Veneto la Lega è un'altra cosa rispetto alla Lombardia: più governativa, ben rappresentata dal sindaco di Verona Flavio Tosi. Senza Bossi e il governatore Luca Zaia i leghisti veneti si metterebbero in proprio. Ma anche in Lombardia, culla del movimento, soffia un venticello acido: liti, voglia di contarsi.
E c'è il partito dei sindaci che guarda a Maroni: trentenni-quarantenni, non vogliono morire berlusconiani e neppure bossiani. A guidare la manifestazione dei primi cittadini contro la manovra del governo c'era il sindaco di Varese Achille Fontana, maroniano. "La pensiamo in tanti così", trattiene l'irritazione, seduta a un tavolo della Berghem Fest, Silvana Saita sindaco di Seriate (il secondo comune della provincia di Bergamo), ex dc approdata alle camice verdi.
A fine settembre andranno a congresso le due federazioni più importanti: Brescia e Varese. La guerra per la conquista dei delegati, eletti con le primarie tra gli iscritti, è cominciata. A Brescia, la federazione che ha portato in consiglio regionale Renzo Bossi, ci sono due candidati alla segreteria: il giovane Mattia Capitanio, sponsorizzato dal Trota, dall'assessore regionale Monica Rizzi (indagata per attività di dossieraggio ai danni degli avversari interni) e dal presidente della provincia Daniele Molgora, contro il vice-sindaco di Brescia Fabio Rolfi, il candidato dei maroniani qui guidati dal deputato Raffaele Volpi.
A Varese le due anime si confronteranno direttamente: Maroni contro il capogruppo Marco Reguzzoni e i famigli del Capo. E così la beatificazione del Leader in vita richiama il paradosso finale per la Lega: con Bossi alla guida non c'è nessuna possibilità di cambiamento. Ma senza di Bossi la Lega si sfascia, muore. Per questo, nonostante la stanchezza, il Totem del Senatur è condannato ancora a restare al suo posto. A illuminare il tramonto.