Era un mondo particolare. Che non esiste più. L'ho rivisto in un sogno: c'era allegria, e sembrava eterno
Di recente ho fatto un sogno. Ho sognato la Fabbrica di Automobili in cui per quarant'anni ha lavorato mio padre. Era la prima fabbrica in Polonia a produrre utilitarie dopo la seconda guerra mondiale, e per lungo tempo è stata anche l'unica. Venne costruita nel 1951. La prima auto a essere prodotta era la versione polacca della Gaz-M20 russa chiamata Pobeda, cioè vittoria.
La fabbrica occupava una vasta area alla periferia di Varsavia ed era probabilmente il maggiore datore di lavoro della città e uno dei maggiori del paese. Da villaggi sperduti arrivavano figli e nipoti di contadini per trasformarsi in operai. Da campagnoli si trasformavano in abitanti di città. Come mio padre. A volte con mia madre lo aspettavamo davanti al cancello della fabbrica. Usciva alle due di pomeriggio insieme a una folla di altre persone. Era giovane, abbronzato, portava una camicia a quadri con le maniche arrotolate. Decine, centinaia di giovani uomini avevano lo stesso aspetto. Ricordo che i loro volti esprimevano una sorta di pacato orgoglio. O forse è solo la mia immaginazione.
Al chioschetto verde di legno mio padre ordinava una birra per sé e una limonata per noi. Si beveva in piedi. Guardavo in alto, controluce, e vedevo la sua figura scura. Avevo sei anni, ma ancora oggi ricordo quel miscuglio di odori: sudore, stanchezza, birra, tabacco scuro e poi la fabbrica, vale a dire metallo arroventato, lubrificante, benzina e aria ionizzata dall'arco elettrico delle saldatrici. Questo era l'odore del mondo degli uomini. Uscivano ogni giorno all'alba, vi si immergevano dentro, si impregnavano della sua aura industriale e tornavano nel pomeriggio. Una volta al mese mio padre portava i soldi a casa. Li poggiava sul tavolo davanti a mia madre. Sul retro delle banconote da cento zloty c'era l'immagine di un'acciaieria o di un'industria di carbone, forse era soltanto una fabbrica ideale. Un chiarore rosso proletario avvolgeva i comignoli fumanti, i binari della ferrovia e una locomotiva nera.
Per qualche tempo sono stato convinto che la fabbrica pagasse mio padre con le sue immagini e quest'idea mi piaceva molto. Era in armonia con la serenità di quei tempi, la sveglia al mattino, il ritorno alla stessa ora e il rotolo mensile di banconote sul tavolo della cucina. Ero orgoglioso che mio padre producesse automobili vere. Le copie della Pobeda sovietica avevano interni spaziosi, emanavano un leggero odore di benzina, i sedili posteriori erano grandi quanto un divano e il cruscotto sembrava una parte di un mobile elegante. Nella seconda metà degli anni Sessanta si iniziò a produrre la Fiat 125 su licenza italiana. In confronto alla precedente, era slanciata, raffinata e cosmopolita.
Nelle belle giornate di primavera centinaia di operai si riversavano dopo il lavoro sulle rive della Vistola. Bevevano birra, giocavano a carte, facevano il bagno, si addormentavano al sole, rinviando il ritorno alle loro anguste abitazioni. Non avevano un Bruegel proletario che immortalasse la loro vita. A quei tempi sembrava che tutto questo sarebbe durato in eterno, che generazione dopo generazione sarebbero arrivati in fabbrica alle sei di mattina, sarebbero usciti alle due di pomeriggio e ogni mese avrebbero ricevuto un rotolo di banconote rosse.
A metà degli anni Settanta mi iscrissi a un istituto professionale. Dovevo seguire le orme di mio padre. Per lui era scontato. Dopo tre anni abbandonai la scuola e la casa, andai lontano per non tornare mai più.
Con la fine del comunismo la fabbrica iniziò ad andare in rovina. Passò in mani coreane, ucraine, americane. Ultimamente non produce più automobili. Uno dopo l'altro, i capannoni vengono demoliti, i terreni liquidati.
Nel mio sogno mi aggiravo in mezzo alle rovine della fabbrica. Non era rimasto quasi nulla degli edifici. Quel che restava era ricoperto di vegetazione. Qua e là compariva dell'acqua, che prima non c'era. La natura si stava riprendendo quello che le era stato tolto. In pianura erano spuntate delle colline e si erano aperte lontane prospettive immerse nella nebbia. Provavo la malinconia tipica della fine di un'epoca. In sogno ero triste per il crollo definitivo del comunismo. Cadeva in rovina, andava in frantumi e perdeva valore come una banconota rossa con l'immagine della fabbrica. Però è significativo che la benevolenza del sogno e del ricordo lo restituisse alla natura, alle erbacce, ai rampicanti e ai laghi. Come se inconsciamente volessi salvarlo dalla crudeltà della storia, dal suo inesorabile nemico, il capitalismo mondiale che arrivava dalla Corea o, ironia della sorte, dalla rossa Cina.
Ma evidentemente questa è la natura delle nostre menti e dei nostri cuori: persino quando sogniamo, essi provano in qualche modo a salvare dalla distruzione quello che abbiamo vissuto.
traduzione di Alessandro Ament