Bilancio delle rivolte arabe tra tentazioni islamiste e nuove proteste. E neanche le elezioni garantiscono la libertà

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Il fatto che in tre paesi dove si sono svolte le elezioni abbiano prevalso gli islamisti, ormai destinati ad assumerne il governo, non ci deve spaventare né sorprendere. Sebbene non siano stati loro ad aver acceso la scintilla né a guidare le rivolte, sono saliti tuttavia sul treno in corsa e alcuni hanno approfittato dell'insofferenza delle popolazioni per presentarsi come salvatori pronti a risolvere tutti i problemi. Ma l'esercizio del potere non è facile e il contatto quotidiano con le realtà rivelerà ben presto se i religiosi possiedono le competenze necessarie per affrontare le difficoltà economiche e culturali.

Il bilancio, nonostante tutto, è positivo. In meno di un anno, abbiamo assistito alla fine di tre dittatori. Il caso della Siria è molto preoccupante, ma prima o poi il despota che ancora la governa dovrà render conto dei suoi atti a un tribunale. I massacri di civili (5 mila, secondo le Nazioni Unite) continuano, con l'appoggio della Russia e della Cina. Solo i militari potranno fermare Bashar el Assad, che non si lascia impressionare dalla pressione dei manifestanti e dal crescente numero di morti.

Tunisia, Egitto e Libia sono Paesi molto diversi. Quello del Marocco è un caso a sé stante poiché alcune riforme sono state approvate per tempo e il Partito della Giustizia e dello Sviluppo (di tendenza islamista) ha ottenuto 107 seggi su 395 in Parlamento. Ma pur non disponendo della maggioranza assoluta, ha formato un governo di coalizione. Verrà giudicato in base ai suoi comportamenti anche se, personalmente, sono contrario a qualsiasi intervento della religione nella sfera politica.

La Libia è il Paese che avrà maggiori difficoltà a entrare nella modernità, ovvero a dar vita a una vera democrazia, poiché il suo sistema tribale ha un peso schiacciante. Inoltre, a causa della sanguinosa dittatura di Gheddafi, non aveva tradizioni politiche (niente partiti, né sindacati, né stampa indipendente o altre forme di libertà). La rivolta ha assunto le sembianze di una guerra civile. Il fatto che il presidente del Consiglio nazionale di transizione, Mostafa Abdeljalil, abbia evocato la "sharia" (ovvero la legge coranica) come quadro di riferimento ideologico, è un dato inquietante. La democrazia è un apprendistato che comincia con l'emergere dell'individuo, misconosciuto in una società di clan e di tribù.

Quel che è accaduto il 9 ottobre 2011 a piazza Tahrir, al Cairo, è grave: mezzi blindati dell'esercito hanno schiacciato manifestanti copti e musulmani, facendo 27 morti in pochi minuti, ma il Consiglio militare non ha reagito.

Un anno prima, non furono soltanto le proteste nelle piazze a mettere in fuga Mubarak. La rivolta del popolo egiziano è sfociata in un colpo di Stato militare e l'esercito ha svolto un ruolo fondamentale nel processo di trasformazione del Paese. Nello stesso tempo, pur offrendo promesse di democrazia, i militari mantengono il potere e non lo cederanno con facilità. Come hanno scritto Bahgat Elnadi e Adel Rifaat (il cui pseudonimo è Mahmoud Hussein): "Il Consiglio militare non sta cercando di guidare una transizione verso la democrazia, ma una restaurazione del vecchio regime sotto una parvenza di democrazia" ("Libération", 25 novembre 2011). I militari, inoltre, attuano come in passato una repressione che arriva fino alla condanna dei contestatori nei loro tribunali speciali, dinnanzi ai quali sono stati condotti finora circa 15 mila uomini e donne, soprattutto giovani.

Non dimentichiamo poi che dopo la nuova occupazione di piazza Tahrir vi sono stati una cinquantina di morti.
Il partito dei Fratelli Musulmani, la più radicata ed antica organizzazione islamista del Paese (nata nel 1928) sta per vincere le elezioni. E le rivolte che in un primo momento sembravano aver superato le ideologie religiose, sono ridiventate in seguito il vessillo di questi movimenti. Ciò non significa, tuttavia, che si tratta di movimenti democratici. Il grande equivoco è stato quello di credere che il fatto di andare a votare fosse sufficiente per definirsi tali. Le elezioni sono una tecnica, mentre la democrazia che può essere illustrata dal voto è un'altra cosa, ovvero una cultura che s'incarna in valori fondati soprattutto sul riconoscimento dell'individuo come essere singolare e unico, dotato di diritti e doveri. Ma questa cultura basata sul rispetto della libertà di ciascuno non si è ancora pienamente radicata nei Paesi arabi.
traduzione di Mario Baccianini