Esprimere la propria opinione senza cercare sponde, alleanze, facili consensi, metterci la faccia, stimolare una riflessione che vada oltre gli umori della pancia, non è prassi comune, e spesso più che approvazione suscita sospetto. Pochi parlano di disabilità in televisione, argomento difficile da trattare. In un'Italia dove non si arriva a fine mese, siamo davvero sicuri che i milioni di normodotati vogliano sentire cosa accade a una minoranza? Siamo sicuri di voler davvero lavorare perché tutti possano avere pari opportunità e pari dignità a partire proprio da chi quotidianamente deve superare ostacoli fisici in un mondo costruito per chi può camminare, vedere, ascoltare, parlare? La mia esperienza mi dice altro.
Mi dice che se parlo di criminalità organizzata, a Casal di Principe mi si risponde: «Ma pensa ai politici di Roma, altro che camorristi». Se parlo dell'arresto della blogger cubana dissidente Yoani Sánchez, mi si risponde: «Perché non parli degli Stati Uniti, sono loro i veri criminali». Raccontare la propria esperienza di Israele, significa sentirsi dire: «Perché non parli piuttosto di Palestina? Dei bambini uccisi, della mancanza di libertà? Dei massacri?».
Sarebbe interessante far capire, una volta per tutte, che raccontare una cosa non significa nascondere l'altra, che parlare di criminalità organizzata non significa diffamare l'Italia. Che parlare di dissidenza a Cuba o di Israele non significa ignorare i conflitti politici e razziali, ma è un tentativo disperato di proporre una riflessione cercando di superare l'ottica dello scontro. È un modo per capire come la comunità internazionale può rendersi utile senza fare di quelle battaglie le proprie battaglie, in mancanza di qualcosa di simile in patria cui aggrapparsi.
SONO CRESCIUTO CON UN NONNO reduce dai campi di concentramento tedeschi. Mi raccontava molte storie, che sarebbero diventate la mia vita, la mia passione, il mio lavoro. Con mio nonno non si parlava di conflitti, ma di vita, di speranza, di rinascita, di pace. A ottobre del 2010 ricevo un invito. A Roma ci sarà una maratona oratoria per raccontare Israele e mi viene chiesto un contributo video. Chi mi è vicino mi consiglia di non intervenire: parlare di Israele è difficile, in Italia è essere pro o contro. È tifo. Non si ragiona.
Per chi è pro Israele avrei dovuto dire che la Palestina è il male assoluto, per chi è pro Palestina che Israele è un paese criminale. Chi mi conosce sa che per anni ho studiato Ghassan Kanafani, scrittore palestinese autore del capolavoro "Ritorno a Haifa", e che avrei tentato, nel poco tempo a disposizione, una riflessione diversa.
VOLEVO DARE il mio contributo e nonostante ora alcuni mi definiscano «sionista ed ebreo» dando alla parola ebreo un'accezione negativa in linea con il più classico antisemitismo, resto convinto che avviare una riflessione serena sia importante. «Il mio ricordo di Israele è fatto soprattutto di immagini, immagini che non vogliono essere soltanto quelle della guerra», così iniziavo il mio intervento al fianco di Rita Levi Montalcini, Furio Colombo, Umberto Veronesi, Lucio Dalla e il cantante degli Almamegretta Raiz. Ognuno ha partecipato con la sua storia, con la sua testimonianza, per non lasciare quella riflessione alla peggiore destra italiana o alla più ottusa sinistra.
Nel video ridotto all'osso non ho mai appoggiato la guerra, mai appoggiato Piombo Fuso o la destra israeliana, mai Netanyahu. Ho parlato di un'altra Israele, quella a cui rivolgersi per poter arrivare alla pace. Cos'è che spaventa in questo? Che si possa sognare di raggiungere la pace in quell'area?
Al povero Vittorio Arrigoni e a quanti mi invitavano ad andare a Gaza a vedere gli orrori della guerra, risposi con un messaggio su Facebook, il 12 ottobre 2010. Sintetizzo così quella risposta. Alla domanda stai con i palestinesi o con gli israeliani, deluderò forse, ma risponderò sempre come mi ha insegnato il mio amico David Grossman: «Sto con la pace».