Four more years, altri quattro anni. Gli americani hanno creduto al loro presidente in carica Barack Obama e hanno scelto, votandolo, che sia lui a guidare il Paese+ fino al 2016 e hanno respinto le proposte di cambiamento che venivano dal repubblicano Mitt Romney, ricco uomo d'affari e ex governatore del Massachusetts, e che si basavano sul binomio meno tasse e meno governo. Obama ha aspettato il responso delle urne a Chicago, la sua città, esattamente come fece nel 2008, per poi parlare a una folla di sostenitori: «Ce l'abbiamo fatta tutti insieme. Così abbiamo fatto la campagna elettorale ed eccoci qui per dire chi siamo. Noi crediamo in un'America grande, comprensiva, tollerante. La ripresa c'è, un decennio di guerre è alle spalle. Io ho imparato da voi e voi avete fatto di me un presidente migliore. Ma il vostro lavoro non finisce qui e non si esaurisce con il voto che avete dato».
La più costosa campagna presidenziale degli Stati Uniti - quattro miliardi di dollari raccolti dal presidente in carica e dallo sfidante Mitt Romney per conquistare la Casa Bianca - è stata impostata intorno alla più canonica delle domande che possono essere rivolte agli elettori: oggi state meglio o peggio di quattro anni fa? La risposta dell'elettore americano è stata: stiamo solo un pochino meglio di quattro anni fa, perché la locomotiva America sbuffa, ansima e cammina a strattoni dando l'impressione di non essere più capace di creare la ricchezza che ha fatto degli Stati Uniti una superpotenza. Ma quel «stiamo un pochino meglio» è bastato a Obama per restare al numero 1600 di Pennsylvania Avenue. Con questo voto, gli americani hanno fatto loro l'approccio del "New York Times", che aveva espresso l'appoggio a Obama il 28 ottobre scorso con questo giudizio: «Il presidente ha mostrato un fermo impegno nell'usare il governo per aiutare la crescita. Ha costruito politiche di budget che non erano indirizzate a proteggere i poteri forti e ha lavorato per tutelare la rete di sicurezza sociale a protezione dei deboli. Obama ha avuto risultati di rilievo nonostante l'implacabile muro di no dei repubblicani all'interno del Congresso così deciso a fermare il presidente che ha rischiato di spingere la nazione verso una nuova recessione».
Decisivo per Obama è stato il voto di alcuni degli "swing States", gli Stati in bilico. Il presidente ha conquistato i più importanti, dall'Ohio all'Iowa, dalla Pennsylvania alla Virginia, mentre si sono dissolte come neve al sole le preoccupazioni che potesse finire come nel 2000 con avvocati e Corte Suprema a stabilire il vincitore. Tuttavia la partita non era facile. Scontato il successo di Obama tra gli afroamericani e i giovani, anche se non si è ripetuto il plebiscito del 2008 perché soprattutto i giovani ritengono che il presidente non sia stato in grado di riempire di contenuti reali le due parole ("Hope", speranza e "Change" cambiamento) che furono la chiave della campagna elettorale di quattro anni fa. Con lui si sono schierate le donne che hanno apprezzato la sostanza della sua politica (assistenza sanitaria, stimolo fiscale, difesa del diritto alla scelta nel campo della procreazione e della sessualità, parità del trattamento economico). Gli ispanici hanno premiato Obama e punito il suo sfidante per due ragioni: pur non essendo riuscito a varare una riforma dell'immigrazione o a fare una sanatoria a favore degli immigrati clandestini stabilizzati, il presidente ha comunque contestato le leggi di alcuni Stati anti-immigrati ed ha avviato un percorso di inserimento nella società americana dei figli dei clandestini che già frequentano scuole ed università americane. Infine, in alcuni stati Obama ha ricevuto la maggioranza dei voti dei Blue Collar, gli operai.
Ora il presidente comincia il secondo mandato dovendo trovare una soluzione, ai problemi che sono stati il cuore della campagna elettorale. A cominciare dalla ripresa troppo lenta e dal deficit troppo alto. Questioni su cui non perdere troppo tempo, perché intanto c'è da decidere che cosa fare con il "Fiscal Cliff", il burrone fiscale, nel quale l'America rischia di cadere essendo stati previsti tagli di spesa e incremento di tasse che scatteranno automaticamente il prossimo primo gennaio se il Congresso non deciderà di varare una serie di provvedimenti per evitarlo. Ma ciò che ha contraddistinto in modo negativo questi ultimi quattro anni Obama è stato proprio il rapporto con la Camera e il Senato. Se all'inizio della presidenza erano stati i repubblicani a cercare di bloccare o di ritardare ogni progetto della Casa Bianca fino alla follia di dire no al "Job Act", un provvedimento che veniva in aiuto di sindaci e governatori per creare nuovi lavori non con finte assunzioni ma rimpiazzando quei pompieri, poliziotti, insegnanti andati in pensione e che non erano stati sostituiti; nella seconda parte del quadriennio 2008-2012 è stata la volta dei democratici del Senato che hanno regolarmente affossato ogni legge che i repubblicani avevano approvato a maggioranza alla Camera. Si parte quindi da una situazione di guerriglia che, se continuerà, non farà bene all'America. Tutto dipende dagli equilibri nuovi del Congresso, non solo quelli tra maggioranza e opposizione ma anche quelli interni ai partiti. I Tea Party escono pesantemente sconfitti e dunque non dovrebbero riuscire a condizionare l'intero partito repubblicano come hanno fatto negli ultimi due anni.
Che strada imboccherà Barack Obama? E quali saranno le sue scelte di fondo? Il presidente ha il vantaggio di non dover più pensare alla rielezione tra quattro anni perché è al secondo mandato. Qualche giorno prima del voto l'economista e premio Nobel Joseph Stiglitz, che non è mai stato molto tenero con il presidente criticando le sue paure di apparire troppo liberal, gli ha suggerito di avere al centro dell'attenzione le diseguaglianze sociali che negli ultimi anni sono aumentate. Non è la sola contrapposizione tra chi ha di più e chi ha di meno. Le diseguaglianze, a detta di Stiglitz, sono il risultato delle storture del sistema America che invece un tempo riusciva a ridurle proprio perché il "Sogno Americano" era a portata di chiunque, creava ricchezza per tutti ed anche le regole erano scritte in modo da non favorire in modo smaccato una parte: «La diseguaglianza nei redditi da mercato è aumentata come risultato della debole applicazione delle leggi sulla concorrenza, di inadeguate regole sulle attività finanziarie, della inesistenza di leggi sulla corporate governance». Obama nei prossimi quattro anni potrà cercare il compromesso quando necessario e puntare i piedi quando i suoi progetti rischiano di essere snaturati.
Che le prossime settimane possano mettere in luce un Obama 2.0 lo si deduce anche dal fatto che dalla Casa Bianca hanno lasciato filtrare la notizia che il presidente è pronto a mettere il veto su qualsiasi legge proposta dai repubblicani che intenda abbassare le tasse per tutti gli americani per aggirare il Fiscal Cliff del prossimo primo gennaio. Obama punta ad un piano che tocchi tutti i punti, le tasse, come il deficit, gli investimenti come i profitti da investimenti finanziari.
Passata la notte elettorale, il presidente non può perdere molto tempo in festeggiamenti. Già il 17 novembre è in partenza per un viaggio in Asia. Thailandia e Cambogia, ma anche una sosta di poche ore a Rangoon, in Myanmar (Birmania), Paese che l'amministrazione Obama ha convinto a uscire dall'isolamento, a indire elezioni e ad aprirsi ai rapporti con la comunità internazionale. Una tappa che ricorda come sul suo tavolo dell'Oval Office non ci siano soltanto i dossier economici, ma quelli dei rapporti degli Stati Uniti con il mondo: dalla guerra in Afghanistan ai conflitti in Medioriente, dai rapporti con la Cina a quelli con i paesi emergenti tipo Brasile o India, dalle preoccupazioni per la situazione dell'Unione europea a quelle per la corsa al nucleare dell'Iran.