Continua a crescere il numero di amministratori locali vittime delle intimidazioni delle cosche. In testa per numeri di episodi c'è la Calabria, seguita dalle altre regioni meridionali, con episodi in aumento in Lombardia e nel Lazio. Un fenomeno preoccupante ma sottovalutato dagli ultimi governi
L'ultimo episodio è successo pochi giorni prima di Natale a Trebisacce, un paese di 10 mila abitanti in provincia di Cosenza. Sei uomini sospettati di far parte di una cosca emergente della 'ndrangheta attiva nell'alto Ionio Cosentino avevano progettato di piazzare due bombe: «Preparami queste cose che glielo devo andare a mettere al maresciallo dei carabinieri a Trebisacce, in questi giorni di festa, sotto la macchina proprio, vicino la caserma. Gliela devo fare una a lui e un'altra al sindaco», si sente nell'intercettazione che li ha incastrati. Gli agenti della direzione distrettuale antimafia li hanno fermati prima che dalle minacce passassero ai fatti. Fare l'amministratore pubblico, in alcuni territori d'Italia, significa, inevitabilmente, andare a toccare, a sconvolgere i piani e gli interessi della criminalità. Ed esporsi a ritorsioni e intimidazioni.
È successo 270 volte nel corso del 2011 secondo i dati raccolti ed elaborati dall'associazione Avviso Pubblico -
www.avvisopubblico.it - che ha da poco presentato il secondo rapporto "Amministratori sotto tiro. Intimidazioni mafiose e buona politica". Un episodio ogni 34 ore, con un aumento del 27 per cento rispetto al 2010. Ma anche nel 2012 il fenomeno non ha accennato a diminuire ed è andato di pari passo con un altro preoccupante record negativo, quello dei Comuni sciolti per infiltrazione e collusione con i clan. Venticinque le amministrazioni commissariate da gennaio.
«Riceviamo una segnalazione di nuove intimidazioni ogni due giorni», spiega Pierpaolo Romani, coordinatore nazionale di Avviso Pubblico, «è un segnale molto preoccupante e da molti punti di vista sottovalutato. E che quindi meriterebbe di essere portato maggiormente all'attenzione dell'opinione pubblica e di chi ci governa. È vero che c'è un rapporto tra mafia e politica - e lo stanno testimoniando numerose inchieste - ma è altrettanto vero che gli enti locali più piccoli rappresentano una barriera della politica contro la mafia. Uno degli elementi che contraddistingue la mafia rispetto ad altre forme di criminalità è proprio la volontà di controllare il territorio e quindi il Comune è oggettivamente la prima istituzione chiamata a controllare, perché ha i rapporti più vicini con i cittadini. È quella più di prossimità».
Le regioni più colpite, nel 2011, sono state quelle meridionali. In testa la Calabria, con 85 casi, seguita dalla Sicilia (67), dalla Sardegna (37), dalla Campania (25) e dalla Puglia (20). Ma la vera novità rispetto al rapporto dello scorso anno è rappresentata dalla presenza della Lombardia e del Lazio, con 9 e 7 casi. «Nel centro nord un episodio che mi ha colpito molto è successo a Fino Mornasco, in provincia di Como», dice Romani, riferendosi al messaggio lanciato lo scorso maggio al sindaco Giuseppe Napoli: una croce di legno alta quasi due metri, posta vicino alla piazza principale della cittadina, accanto ad essa una vecchia foto presa dal volantino della campagna elettorale del 2004, e una bomba priva di carica. E, da lì, una lunga serie di "avvertimenti" che ha messo a dura prova l'intera giunta. Alcuni uffici, inoltre, rivela il rapporto di Avviso Pubblico, vengono presi di mira più di altri: quelli tecnici, che gestiscono gli appalti, e i vigili urbani perché sono i funzionari che vanno a controllare i cantieri. Così come gli uffici regionali che si occupano delle spese e delle forniture sanitarie. Un immenso giro d'affari, quello legato alla sanità, che incide per l'80/85 per cento sul bilancio di una Regione.
Tra gli amministratori locali sono invece soprattutto i sindaci, gli assessori e i consiglieri a diventare oggetto di intimidazioni. «Nel 2011, una serie impressionante di minacce è stata rivolta in particolare ai sindaci donna che governano comuni calabresi», spiega il coordinatore di Avviso Pubblico, «molto spesso si pensa che i sindaci che ricevono minacce conducano esplicitamente la lotta alla mafia. In realtà, non fanno altro che cercare di fare la politica intesa come bene comune, stando attenti a recuperare risorse che sono state sottratte allo Stato e a ridistribuirle in maniera equa, riconoscendo i diritti e combattendo i privilegi».
È il caso del primo cittadino di Isola di Capo Rizzuto, Carolina Girasole. La sua giunta si è insediata nel 2008, dopo un anno e mezzo di commissariamento. La linea con cui il sindaco Girasole decide di amministrare è chiara sin dalla delibera n. 2, con la quale il Comune si costituisce parte civile nei processi di mafia. «Nei primi due anni abbiamo fatto molte altre cose per cercare di riavviare, in modo concreto e sano, la macchina amministrativa, che era rimasta ferma al commissariamento», racconta Girasole. Ma dal 2010 partono le intimidazioni: macchine bruciate, lettere anonime, minacce dirette ai consiglieri e un blog anonimo che getta fango sui membri della giunta. «Sono trascorsi quasi cinque anni, che considero come una vera e propria resistenza. Abbiamo fatto scelte che abbiamo pagato a caro prezzo e la nostra vita privata è stata completamente sconvolta. Eppure abbiamo semplicemente cercato di fare il nostro dovere, gestendo la cosa pubblica in modo serio e cercando di dare efficienza e modernità alla macchina amministrativa. Non potrei definirlo diversamente, anche se mi rendo conto che possiamo sembrare degli extra-terrestri».
L'ultimo forte segnale la giunta guidata da Carolina Girasole lo ha voluto dare a novembre, intitolando la piazza del municipio di Isola di Capo Rizzuto a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. E dedicando una via adiacente a Emanuela Loi, l'agente della scorta di Borsellino che perse la vita nella Strage di via d'Amelio. Donne che si oppongono alla mafia. Come altre prime cittadine in terra di Calabria: Elisabetta Tripodi, a Rosarno, Maria Carmela Lanzetta, a Monasterace, Anna Maria Cardamone, a Decollatura.
«A volte essere donna rende l'attacco anche più facile, ma è nata una forte solidarietà tra di noi», conclude Carolina Girasole, «anche se spesso mi lamento perché veniamo chiamate "sindache anti-'ndrangheta". Usando questo marchio il rischio è che venga messo in secondo piano il grande lavoro che è stato fatto per dare un cambiamento ai nostri territori. È un'etichetta che dice tutto e non dice niente. Oggi c'è ancora qualcuno che certi argomenti non li accetta: chi gestiva interessi e non può più farlo, non ci accetta. Però alcuni cittadini vedono che le cose iniziano a funzionare bene e cominciano ad avere un atteggiamento diverso».