
Di tutti i paesi che stanno seguendo con attenzione quella che si presenta come un'interminabile campagna presidenziale negli Stati Uniti, la Cina è quello che più si deve preoccupare. In passato, i candidati alla presidenza di entrambi partiti, repubblicano e democratico, hanno sempre sostenuto in campagna elettorale di essere intenzionati a mostrare il pugno fermo verso la Cina. Nel 1980, per esempio, Ronald Reagan, ventilò la possibilità di ristabilire i rapporti diplomatici con Taiwan, una mossa che avrebbe spinto la Cina a rompere i rapporti con gli Stati Uniti. Nel 1992, Bill Clinton definì i leader cinesi "i macellai di Pechino", impegnandosi a porre fine allo status di partner commerciale privilegiato della Cina se il paese non avesse fatto progressi sul fronte dei diritti umani. Nella sua campagna presidenziale, George W. Bush definì la Cina un "concorrente strategico".
L'impegno durante la campagna elettorale a mostrare fermezza nei confronti della Cina ha solitamente avvantaggiato in un modo o nell'altro i candidati che lo hanno proclamato: Reagan per avvicinarsi alla base più conservatrice e anticomunista del partito repubblicano; Clinton nel tentativo di ingraziarsi i sindacati e gli attivisti per i diritti umani; Bush per mostrare le sue credenziali di falco nelle questioni di sicurezza nazionale. Non sorprende quindi che uno dei principali candidati repubblicani, Mitt Romney, si mostri fermo nei confronti della Cina. Nessuno degli altri candidati repubblicani ha finora sollevato la questione cinese. Romney invece le ha dato priorità nella sua agenda per la politica estera. Ha promesso di far passare delle leggi che definiranno la Cina un paese che "manipola la valuta" e che imporranno sanzioni commerciali se Pechino non permetterà l'apprezzamento del renminbi. I principali obiettivi politici della posizione assunta da Romney è evidente. Il primo è differenziarsi dal presidente Barack Obama, che finora ha rifiutato di definire la Cina un paese che "manipola la propria valuta". Secondo, spera che questa posizione ferma gli procuri i voti degli operai americani, che sono le prime vittime della delocalizzazione del settore manifatturiero ad alta intensità di manodopera.
La posizione di Newt Gingrich è motivata probabilmente dalla stessa logica. Nelle primarie nel South Carolina, Gingrich è stato più tempestivo di Romney nel proclamare la sua intenzione di attaccare Obama sul commercio con la Cina nel caso vincesse la nomination repubblicana.
Se il passato insegna qualcosa, probabilmente tutti questi candidati repubblicani presto si pentiranno dell'accento intransigente della loro retorica, perché tradurlo in politiche concrete che regolino i rapporti commerciali con la Cina equivarrebbe a innescare una guerra commerciale distruttiva. Una volta conquistata la Casa Bianca, i loro predecessori hanno tutti dovuto abbandonare le politiche della fermezza verso la Cina. Reagan non ristabilì i rapporti con Taiwan. Clinton lasciò invariato lo status dei rapporti commerciali con la Cina. George W. Bush cambiò linea politica quando si trovò costretto a dover poter contare sulla cooperazione cinese dopo l'11 settembre.
Romney o Gingrich presidenti non costituiranno una eccezione. Data l'importanza della Cina per l'economia statunitense, sarebbe folle pensare che gli Stati Uniti possano punire la Cina senza darsi la zappa sui piedi. La Cina detiene l'equivalente di circa 2 mila miliardi di dollari in debito sovrano americano. È il secondo partner commerciale degli Stati Uniti e un mercato per le esportazioni americane in via di espansione. Le principali corporation statunitensi hanno investito in Cina circa 110 miliardi di dollari, da cui ricavano ora una quota significativa dei loro profitti.
Per tutti questi motivi, se i repubblicani vincessero a novembre, è lecito aspettarsi che il nuovo presidente faccia dietrofront sulla linea di fermezza verso la Cina. Ciò sarebbe semplice per Romney e solo un pò più complicato per Gingrich.
traduzione di Guiomar Parada