Quattro persone che hanno subito gravi danni fisici e psicologici dalle bombe mafiose stanno combattendo da anni per far valere un loro diritto. E si chiedono se lo Stato li ignora per stupidità o per cattiveria
Vittime due volte: prima delle bombe, ora dello Stato. Scampati alla morte, mutilati nei corpi dalle stragi organizzate da corpi deviati dello Stato e dalla mafia, ora sono in lotta per ottenere quello a cui avrebbero diritto: la pensione, che va erogata alle «vittime del terrorismo e delle stragi di mafia con una invalidità pari o superiore all'80 per cento». Una manciata di euro che invece viene loro negata, chissà se «per stupidità» (come dice,
Paolo Bolognesi, presidente delle vittime della strage terroristica del 1980 alla stazione di Bologna) o per «antipatia o avversione» come sospetta
Giovanna Maggiani Chelli, presidente delle vittime delle bombe mafiose di via Georgofili a Firenze nel '93.
Ma andiamo per ordine. Nel 2004 il Parlamento approva la legge per le vittime di terrorismo e mafia e quattro di queste richiedono la pensione: tre all'Inps e una all'Inpdap, come dipendente pubblico. Sono
Sonia Zanotti, ferita in modo grave per la bomba alla stazione di Bologna del 1980;
Antonio Calabrò di Napoli, che viaggiava sul rapido 904, quello della bomba del 23 dicembre 1984,
Anna non guarirà più e ha visto il suo amico morirle accanto nella strage di via dei Georgofili a Firenze nel 1993,
Mario che si rifiuta di parlare della stazione di Bologna dopo la bomba del 1980: ha rimosso per l'angoscia.
Sonia Zanotti, che si era rivolta all'Inpdap ottiene la pensione velocemente: poi però le comunicano che è provvisoria e gliela possono togliere in ogni istante. Agli altri va peggio: con loro infatti l'Inps tergiversa. Passano gli anni. Poi l'ultimo governo Berlusconi sembra prendere in mano la questione: «Letta e Berlusconi vengono a salutarci», ricorda Bolognesi, «in occasione del giorno della memoria e ci dicono: ‘State tranquilli, risolviamo il problema'. Letta ad aprile del 2009 ci convoca a Palazzo Chigi e ripete: ‘Adesso convoco io, faccio io'. Pensavo che si arrivasse alla soluzione, ma da quel momento non abbiamo più avuto notizie. Decine e decine di telefonate, ma si sono sempre negati e non si sono fatti più trovare».
Le promesse si ripetono nel 2010 al Quirinale, alla presenza del capo dello Stato. Giorgio Napolitano chiede «tutela per chi è sopravvissuto» e il ministro della giustizia, Angelino Alfano, replica: «Il governo farà tutto quello che è nei propri poteri perché i loro diritti siano espressi pienamente sia sotto il profilo previdenziale che nella piena applicazione della legge 206».
Il che si traduce in un parere richiesto al Consiglio di Stato, che risponde: i quattro non lavoravano al momento della strage e quindi non hanno diritto alla pensione. «Ma la legge non precisa che dovevano lavorare», s'arrabbia Paolo Bolognesi.
Ricorda
Sonia Zanotti, zoppicante e ancora in stampelle: «Tanto umano, emozionante e gentile è stato il Capo dello Stato, tanto brutto è stato sentirsi dire dall'allora ministro Angelino Alfano che dopo due settimane ci avrebbero dato risposte sulla legge 206 e sulle pensioni, mentre poi non c'è stata nessuna risposta». Sonia a quell'ora del 2 agosto 1980 non doveva trovarsi lì, nella sala d'attesa: «Io e mia cugina siamo arrivate alla stazione alle 8 ma abbiamo perso il treno per Bolzano». Alle 10.25 lo scoppio. «Seduta nella sala d'attesa, all'improvviso il boato, il caos, l'inferno ed io sotto le macerie. Pensavo che stessero girando un film ed io lo interpretavo. Poi le urla, le sirene. Avevo 11 anni, giocavo ancora con le Barbie, ma ricordo bene: subito si è sparsa la voce che fosse scoppiata una caldaia, ricordo la fiammata, la luce accecante, la sensazione di esser sbalzata in aria, la caduta. Ero mezza sepolta quando un ragazzo mi ha tirata fuori, ho cercato subito di camminare, ma non ce la facevo e mi sono accorta solo a quel punto che il mio piede destro era quasi completamente staccato dalla gamba. Poi il passaggio di braccia in braccia, l'ambulanza che mi ha portato al Sant'Orsola. Da quel giorno ho trascorso 13 anni da pendolare tra casa e ospedali con almeno due ricoveri l'anno. Le peggiori, però, sono le ferite interne: ansia, angoscia, terrore. E ora il senso di ingiustizia».
Antonio Calabrò di Napoli viaggiava sul rapido 904 il 23 dicembre 1984, proprio nel vagone della bomba, fatta scoppiare a distanza nel tunnel della Grande galleria dell'Appennino. La mafia la fece deflagrare in galleria per ammazzare più gente: 17 morti, 267 feriti. Lui è tra loro, esce in barella insanguinato, è tra i più gravi, sui primi referti porta attaccato addosso il titolo di ferito n.1. La foto sulla barella con i pantaloni strappati fa il giro del mondo: «Stavo fumando una sigaretta sul corridoio, dovevamo raggiungere mio fratello a Milano per il Natale con mamma e papà. All'improvviso il buio, mi trovo riverso a terra con qualcosa sulla bocca e mi sento pizzicare su tutto il corpo. Cerco di muovermi, non ci riesco, la bocca mi fa male. E sento un grosso buco nel braccio con dentro residui di ogni tipo e ustioni sul 15 per cento del corpo. Dentro il mio corpo bucato le schegge di pentrite, cioè nitroglicerina e tritolo. Lo stesso micidiale esplosivo trovato nei depositi Gladio. Per oltre otto anni dalle ferite mi escono residui, dal ferro alla plastica al vetro, conficcati come proiettili nel mio corpo. Purtroppo ho preso in pieno il vento dello scoppio. Molte schegge ora sono incistate». Studente all'università Federico II di Napoli, riesce a laurearsi in ingegneria ed entra al centro ricerche della Cira a Capua, che lascia un anno fa e intenta causa all'Inps per il riconoscimento della pensione come vittima di strage. Il processo si celebrerà fra pochi giorni. Ammette, però, lo sconforto: «Mai ho ricevuto una comunicazione ufficiale dall'Inps, pur avendola richiesta».
A una delle persone colpite della strage di via Georgofili del '93 a Firenze (una donna che vuole rimanere anonima) la bomba ha portato via un caro amico. E' morto davanti ai suoi occhi e ha subito anche lei gravissime conseguenze. Tre mesi dopo le bombe di Cosa Nostra sono infatti comparsi i primi sintomi devastanti di tanto orrore. Sintomi fisici e psicologici. Ora ha 40 anni e più dell'80 per cento di invalidità. Ma anche per lei, niente diritto alla pensione.
Le stragi del ‘93, come quella di Firenze, spiegano i giudici, avvengono come ferocia risposta di Totò Riina e dei Corleonesi per l'applicazione del 41 bis, il carcere duro per i mafiosi. Perfino il pentito Gaspare Spatuzza ha chiesto 'perdono' alla città per quell'attentato. Dice una delle vittime: «Io sono costretta a domandarmi se quelle pensioni non vengono erogate per un'avversione di qualche tipo. Perché impuntarsi sulle disgrazie di quattro persone?».