Solo nel 2011 ne sono stati uccisi 1.500. Perché il prezzo dell'avorio sul mercato illegale è in forte ascesa. E mentre la crisi economica fa tornare in auge il bracconaggio, in tutto il continente rimangano poco più di mezzo milione di pachidermi

Ci fu un tempo in cui gli elefanti erano signori e padroni di questa Terra. O, se non della Terra, dell'Africa. A centinaia di migliaia, quei colossi spaziavano dal grande deserto a nord, attraverso foreste e savane, fino all'Oceano Australe: il continente era per loro un unico, sconfinato pascolo. Seppure vedevano poco e male, gli elefanti sentivano tutto, sapevano tutto. Ogni vibrazione, ogni mutamento nell'aria, ogni suono remoto era raccolto dalle loro enormi orecchie, simili a radar in perenne movimento, e dalla sensibilissima proboscide. Attraverso gli infrasuoni bassissimi emessi dai loro stomaci essi restavano in contatto, trasmettendosi informazioni di distanza in distanza, avviluppando il territorio in quello che per le altre creature era solo silenzio, ma per loro una rete di telecomunicazioni che solo la tecnologia umana del XXI secolo riesce ad eguagliare. La mole, la possanza, l'intelligenza, la longevità, la memoria, avevano fatto del più grande mammifero della terraferma un dominatore. Gli elefanti erano magnifici, saggi e al bisogno violenti; mansueti ma capaci di un'aggressività devastante che teneva in rispetto tutte le altre creature viventi.

In quel tempo l'homo sapiens temeva e venerava gli elefanti. Ne riconosceva il dominio e se ne stava ai margini. Poi, com'è noto, ci siamo evoluti. Abbiamo inventato armi e trappole sempre più efficienti. Abbiamo imparato a lavorare l'avorio, il materiale bello e perfetto di cui sono fatte le zanne degli elefanti. Per dimostrare il nostro acquisito primato abbiamo fatto del grande erbivoro uno strumento di guerra, come Annibale; un animale domestico, come papa Leone X; una cavia, come Thomas Edison; un pupazzo, come Walt Disney. Un attore, un'attrazione da circo, un ninnolo, perfino uno spartineve usandone le ossa, come accadeva a Torino all'inizio del secolo scorso. Finché ci siamo accorti che ne stavamo provocando la scomparsa e abbiamo cominciato a dire che era necessario fermarsi. Il commercio dell'avorio è stato bandito; il traffico perseguito; il bracconaggio punito. La strage, credevamo, era stata arrestata.

Ma non è così. La strage continua. Anzi cresce, istigata dalla crisi globale che rende sempre più appetibili le attività illegali in ogni parte del mondo: anche questa, che di tutte è la più povera e la più feroce. Il 2009, il 2010, il 2011, dice un rapporto pubblicato il mese scorso, sono stati anni record. Nel 2011 sono state intercettate in operazioni di polizia un totale di 24,3 tonnellate di avorio, il che - secondo l'Ifaw, il Fondo internazionale per la salvaguardia degli animali, citato da "Le Monde" - equivale «all'uccisione di migliaia di elefanti». Non solo: a questo totale si è arrivati con il sequestro di 14 grandi carichi, più qualche altro minore, il che sembra indicare che non si ha più a che fare con l'iniziativa di una miriade di bracconieri, bensì con un'ecatombe organizzata dalla criminalità internazionale.

Il prezzo dell'avorio sul mercato clandestino non fa che aumentare. Tra il 2002 e il 2004 è più che raddoppiato, passando da 120 a 280 euro al chilo; e nei sei anni successivi è raddoppiato nuovamente, raggiungendo la soglia dei 600 euro al chilo. La domanda, che è concentrata in Oriente e segnatamente in Cina, seguita dalla Thailandia, cresce senza posa. L'offerta non ce la fa a starle dietro e così il prezzo va su. È questo un effetto paradossale della messa al bando del commercio dell'avorio che risale al 1989. Il bando fa crescere il prezzo e più il prezzo è alto più il traffico diventa appetibile. Corruzione e inefficienza del sistema giudiziario dei Paesi coinvolti contribuiscono al disastro.

Periodicamente, le autorità organizzano autodafé nei quali i carichi di avorio sequestrati vengono dati alle fiamme. Il primo e più famoso resta quello voluto nel 1989 a Nairobi dal celebre paleoantropologo Richard Leakey, quando era stato messo a capo del Kenya Wildlife Service. Iniziarono così le Wildlife Wars di Leakey (come egli ha intitolato un suo libro di memorie) in difesa degli elefanti. Guerre perdute: cinque anni dopo Leakey fu rimosso, dopo aver anche subito un gravissimo incidente con il suo aereo monomotore, nel quale perdette entrambi gli arti inferiori e all'origine del quale si è sempre sospettato, senza poterlo dimostrare, il sabotaggio.

Gli autodafé continuano: l'ultimo risale al 27 giugno, a Libreville, Gabon. Ad appiccare il fuoco alla grande catasta di avorio sequestrato è stato il presidente Ali Bongo Ondimba. Quasi cinque tonnellate di zanne e manufatti, valore totale stimato a 7,6 milioni di euro, mandati deliberatamente in fumo (il falò di Leakey aveva bruciato 12 tonnellate, ma all'epoca l'avorio valeva molto meno). Tra i due roghi sono passati trentatré anni, in mezzo ci sta tutta l'Africa (Libreville è sull'Atlantico, Nairobi poco distante dall'Oceano Indiano), una generazione e numerosi cambi di regime, ma sembra non sia cambiato nulla.

Nessuno sa quanti siano oggi gli elefanti africani. L'ultima stima risale al 2007 e ne calcolava la popolazione tra il mezzo milione e i 700 mila capi. Il problema è che essa è ripartita in maniera molto irregolare. Anche qui c'è un paradossale effetto negativo: dove le politiche conservazioniste sono più efficaci e meglio applicate, il numero degli elefanti tende a diventare troppo alto rispetto al territorio che li sostiene. Ciascuno di essi bruca ogni giorno quintali di vegetazione e questo spiega il perenne movimento dei branchi alla costante ricerca di pascoli. Per questo, periodicamente, un certo numero di capi viene abbattuto e il loro avorio messo sul mercato, concordando una sospensione parziale del bando. È accaduto nel 1999 e nel 2008 ed è difficile stimare l'effetto di queste decisioni sul bracconaggio. Da una parte, l'avorio di contrabbando viene messo così fuori mercato; ma è anche verosimile che ogni vendita non faccia che alimentare la domanda.

Questa settimana si è riunito a Ginevra il comitato permanente della Convenzione sul commercio internazionale delle specie minacciate, o Cites, cioè l'accordo internazionale in base al quale 33 anni fa fu messa al bando la compravendita mondiale dell'avorio. All'ordine del giorno c'era, fresco di stampa, un rapporto di 29 pagine note comprese, che è un bollettino di disfatta. Si intitola "Salvaguardia degli elefanti, uccisioni illegali e commercio dell'avorio" ed è datato 21 giugno. Il Cites ha un programma denominato Mike che consiste nel monitoraggio delle «uccisioni illegali», cioè delle azioni di bracconaggio. Funziona in modo molto semplice: contando le carcasse degli elefanti uccisi, mutilati delle zanne e abbandonati nella savana. È un calcolo molto approssimato per difetto, perché molti di coloro che dovrebbero collaborare non lo fanno. È comunque da qui che emergono le cifre della catastrofe africana. 8.575 elefanti uccisi tra il 2002 e il 2011 in 27 diversi Paesi; 1.408 nel solo 2011. Comunque si elaborino questi dati, tutti i grafici mostrano una curva ascendente. E la ragnatela del traffico illegale di avorio avvolge l'intero continente, dal Camerun al Mozambico. Il rapporto contiene una lunga serie di allarmate raccomandazioni ai governi africani coinvolti, che suonano come tante grida manzoniane. La discussione a Ginevra non dev'essere stata facile.

Come in tutte le guerre, oltre alle vittime c'è il trauma dei sopravvissuti. Animali il cui comportamento diventa imprevedibile e aggressivo. Valga in proposito la straordinaria testimonianza del conservazionista sudafricano Lawrence Anthony, scomparso in marzo (il suo libro, "L'uomo che parlava agli elefanti", tradotto in italiano per Newton Compton appena due anni fa, è oggi fuori catalogo). Anthony accolse nella sua riserva di Thula Thula, nel KwaZulu, un branco di elefanti "problematici" scampati a ripetute stragi compiute dai bracconieri. Soltanto con infinito tempo, pazienza e amore riuscì a ricostruire una convivenza. Fu magnificamente ripagato. Ogni volta che rientrava nella riserva dopo un viaggio, lungo o breve che fosse, anche la volta che tornò fuori programma dopo aver perso un aereo, trovava il branco ad aspettarlo, schierato al cancello d'ingresso. Gli elefanti sapevano; gli elefanti sanno tutto.

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