Ogni paziente che sta in ospedale senza che ci sia bisogno costa mille euro al giorno. Eppure è prassi tenere la gente a letto anche una settimana, solo per fare esami. Uno spreco tutto italiano, che - se evitato - potrebbe impedire altri (più dolorosi) tagli

Quattro miliardi l'anno. È quanto riuscirà a risparmiare il supercommissario Enrico Bondi razionalizzando le forniture alle Asl: dispositivi medici come spese di pulizia, lavanderia o mensa che costano annualmente al Servizio sanitario nazionale 34 miliardi di euro. E i margini per razionalizzare ci sono: dal prezzo dei dispositivi, estremamente variabile da asl ad asl, alle gare d'appalto per i servizi. Poi, la sanità avrà dato tutto quello che può dare e nessun taglio sarà più possibile: negli ultimi anni, i conti sono stati tenuti sotto stretto controllo, e la stessa Corte dei conti, nella relazione annuale sulla finanza pubblica, ha riconosciuto al settore sanitario risultati migliori rispetto alle attese, con 2,9 miliardi di spesa complessiva in meno sulle previsioni. Ma si potrebbe fare di più. E se di spending review si deve continuare a parlare in sanità lo si deve fare andando al nocciolo dello spreco: i ricoveri inutili. Persone che stanno giorni in ospedale a non fare nulla costando circa mille euro al giorno al Servizio sanitario nazionale. Mettere ordine porterebbe un risparmio del 5 per cento della spesa ospedaliera: quasi 3 miliardi di euro l'anno.
La cistifellea da togliere, ad esempio: in molti paesi il paziente si opera in day-hospital o rimane una notte in ospedale dopo l'intervento. In Italia la degenza media è di quattro giorni ma in molti casi si arriva a una settimana, senza alcuna utilità dal punto di vista clinico e con grande spreco di risorse. Il caso del Lazio è eclatante: su 27 ospedali monitorati dall'Agenas, l'agenzia per i servizi sanitari regionali, solo sette rientrano nella media nazionale, tutti gli altri la superano, comprese due università che dovrebbero rappresentare l'eccellenza: sette giorni di ricovero al Policlinico di Tor Vergata e otto all'Umberto I.

Perché? Melchiorre Costa, primario di chirurgia all'Ospedale di Lecco, anomalia lombarda per i lunghi tempi di degenza spiega: "Quando un paziente arriva in pronto soccorso con una colica biliare noi lo ricoveriamo ma per trovare il tempo di operarlo possono passare alcuni giorni. E non serve che stia in ospedale. In un sistema efficiente si scriverebbe una lettera al medico di famiglia indicando eventuali farmaci e gli accertamenti da eseguire in ambulatorio. E poi si fisserebbe la data dell'intervento. Ma da noi non si riesce a fare. Difficoltà di rapporti coi medici di base e per fare gli esami i pazienti perdono mesi". Così, però, si perdono soldi: dimezzare i giorni di degenza significa ridurre le spese generali dell'ospedale e rendere disponibili posti letto per altri pazienti.

A leggere i dati Agenas, altri soldi si potrebbero risparmiare se non si tenessero inutilmente in ospedale le persone che si rompono il femore e hanno bisogno di un intervento. Gli ortopedici sanno che è fondamentale intervenire tempestivamente per ottenere un completo recupero, ma in Italia l'intervento si esegue entro le 48 ore dalla caduta solo nel 31 per cento dei casi. In media si passa da un solo giorno di attesa all'ospedale Villa Scassi di Genova fino ai tragici 31 giorni alla casa di cura accreditata Pineta Grande di Caserta e all'ospedale Bianchi di Reggio Calabria.

I genovesi fanno in fretta. Perché, spiega Alberto Federici, primario di ortopedia a Villa Scassi: "Possiamo contare su anestesisti che non si tirano indietro quando c'è da portare un malato in sala operatoria in tempi rapidi e internisti che sanno dosare le indagini diagnostiche. Gli esami sono indispensabili ma a volte per avere un dato più accurato si rimanda l'intervento al giorno successivo. E si perde tempo prezioso".

Insomma, ci sono casi nei quali lasciare il malato a scaldare il letto è addirittura dannoso. Ma quasi sempre è inutile. Eppure è prassi ricoverarlo un paio di giorni prima di un'operazione per fare gli esami, vedere il medico, ambientarsi un po', mentre potrebbe presentarsi in ospedale la mattina stessa dell'intervento, portando con sé i referti degli esami eseguiti a casa. I dati raccolti dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, presieduta da Ignazio Marino, parlano chiaro: si va da un minimo di 0,7 giorni di anticipo sul ricovero in Friuli Venezia Giulia e Marche a quasi tre giorni in Lazio e Molise. Ma ci sono situazioni paradossali come quella dell'azienda ospedaliera Mater Domini di Catanzaro che in media ricovera i pazienti sette giorni prima dell'intervento.

Ma se questo è un paradosso evidente a tutti, più sottile, ma inutilmente costosa e inutile dal punto di vista dell'assistenza, è la cura in ospedale di persone che potrebbero essere curate a casa. Se si analizzano per esempio i dati del ministero sull'influenza, si scopre che in quasi tutto il centro e il nord Italia il virus stagionale è curato correttamente, con tassi di ricovero vicino allo zero, mentre in alcune regioni del sud, in particolare Calabria, Sicilia, Puglia e Sardegna, si finisce in ospedale per l'influenza trenta o quaranta volte in più della media nazionale. E questo perché non si vaccinano le persone a rischio e perché i medici di base non forniscono un servizio 24 ore su 24, sette giorni su sette. Ma curare un'influenza in ospedale è è un'aberrazione in termini economici. Lo stesso vale per il diabete. Cosa fanno i pazienti che non seguono regolarmente le terapie da casa e non tengono sotto controllo la malattia? Nelle province di Taranto, Rieti o Verona si rivolgono all'ospedale e, nella maggior parte dei casi, finiscono ricoverati costando mille euro al giorno, mentre dove funzionano i centri anti-diabete sul territorio, come ad Aosta, Torino o Firenze, il ricorso all'ospedale è molto ridotto.

Insomma, la chiave per ridurre alcuni sprechi è in una parola oggi molto utilizzata dagli addetti ai lavori: appropriatezza. Che significa sottoporre i pazienti alle terapie adeguate, senza pregiudicarne il buon esito ma tenendo gli occhi aperti sugli aspetti economici. Come a dire che se un ricovero serve sul serio non deve essere mai negato a nessuno, ma se può essere sostituito con un day-hospital o una terapia domiciliare, allora quel ricovero diventa spreco di denaro pubblico. Anche se, commenta Lorenzo Sommella, direttore sanitario dell'ospedale San Filippo Neri di Roma e docente di organizzazione sanitaria all'Università Cattolica: "Il recupero economico ottenuto dalla lotta a sprechi e inefficienze deve servire a finanziare l'innovazione tecnologica e del farmaco e a garantire le migliori cure disponibili".

La partita è delicata, perché tagliare tout court può essere catastrofico. Sta accadendo in molte parti d' Italia tanto che lo stesso ministero riconosce che in alcune regioni i livelli minimi di assistenza cui tutti abbiamo diritto sulla carta non sono garantiti nella realtà. "All'ospedale Ascalesi di Napoli", denuncia ad esempio Giosué di Maro, segretario della Cgil medici della Campania: "Il commissario non autorizza dal 2009 la sostituzione dei filtri dell'unica radioterapia pubblica della città. Lui risparmia ma i pazienti devono per forza rivolgersi al privato". E, sempre a Napoli, per ridurre i costi, il commissario ha chiuso il centro regionale di neuropsichiatria infantile, ristrutturato nel 2001 con 3 milioni di euro, attrezzatissimo e punto di riferimento per tutta la regione. Senza dire dove andranno le famiglie che hanno bambini con problemi di salute mentale.