Assomiglia un po' alla corolla di un fiore, solo che i petali sono composti da pannelli in grado di curvarsi per captare al meglio la luce del Sole e invece che essere piantata nella Terra, ci orbita attorno. Il progetto della Artemis Innovation, l'azienda che, con fondi della Nasa, punta a costruire una centrale satellitare da cui convogliare sul nostro pianeta l'energia luminosa proveniente dallo Spazio è uno degli esempi più recenti di design biomimetico: ovvero di progettazione che trae spunto dalle soluzioni adottate dalla Natura.
In tempi in cui si inizia a pensare alle risorse del pianeta come a qualcosa di limitato e prezioso, le lezioni del mondo vegetale e animale vengono tenute in particolare conto per cercare di ottenere la massima efficienza energetica, minimizzando al contempo gli scarti di produzione.
Uno dei principali guru della biomimetica è la statunitense Janine Benyus, fondatrice del Biomimicry 3.8 Institute di Missoula, nel Montana, che invita a guardare alla natura più che come a un serbatoio di materie prime da sfruttare, come a una fonte di saggezza frutto di una numero infinito di prove e tentativi.
"Dobbiamo capire", dice Benyus, "che noi esseri umani non siamo i primi a costruire, i primi a produrre carta, a cercare di ottimizzare lo spazio, a sviluppare materiali impermeabili, a costruire case per i nostri piccoli. La natura ha alle spalle 3,8 miliardi di anni di ricerca e sviluppo, in confronto ai 200 mila da quando è apparso l'homo sapiens".
Qualche esempio di prodotti già esistenti derivati dalla biologia? La vernice autopulente ispirata alle foglie di loto, l'adesivo il cui meccanismo di fissaggio replica il modo in cui il geco si attacca alle superfici con milioni di minuscole setole, i display degli schermi di alcuni lettori di libri elettronici in cui il colore è prodotto dal passaggio della luce attraverso membrane riflettenti e rifrangenti, come accade in natura alla farfalla Morpho.
Possono esserci due approcci principali per l'innovazione derivata dalla natura. Il primo è quello di partire dall'osservazione di un fenomeno biologico e applicarne i meccanismi a un problema di design. Un esempio ne è la ricerca, effettuata negli anni Novanta dal docente di Scienza delle Piante Wilhelm Barthlott all'Università di Bonn, appunto sulle foglie del loto. Osservandone al microscopio la superficie, Barthlott scoprì che queste foglie non sono lisce, come potrebbe sembrare, ma sono ricoperte da migliaia di piccole scaglie, su cui la polvere e le impurità non riescono a fare presa e vengono perciò trascinate via dalla pioggia. Barthlott ebbe l'idea di commercializzare questa scoperta applicandola a una serie di prodotti, di cui il rivestimento "autopulente" Lotusan per le facciate delle case, è forse l'esempio più famoso.
L'altro approccio, speculare, è quello di partire da una sfida di progettazione di un artefatto umano, e cercarne la soluzione nel mondo naturale. È il caso del progetto del EastGate Centre di Harare, in Zimbabwe, realizzato dall'architetto Mick Pearce traendo spunto dal modo in cui le termiti costruiscono i loro caratteristici nidi "a pinnacolo", la cui temperatura rimane pressoché costante nonostante il caldo torrido diurno e il fresco delle notti. Pearce studiò il sistema di ventilazione dei nidi delle termiti per creare un edificio il cui sistema di climatizzazione "naturale", basato su una serie di ventole di sfiati, consuma il 10 per cento di un analoga costruzione dotata di un sistema di raffreddamento tradizionale.
Un campo dove lo studio della natura può fornire parecchi spunti interessanti è quello dell'incollaggio. Spiega Carlo Santulli, docente di ingegneria dei materiali all'Università La Sapienza di Roma e autore del libro "Biomimetica" (Ciesse Edizioni, 2012): "Il problema degli adesivi attuali è che se l'incollaggio è forte, è anche irreversibile. Il cirripede, un parassita marino, procede invece in due fasi. All'inizio dalla ghiandola produce una specie di cemento provvisorio, se poi si trova bene sulla superficie, anche dopo qualche settimana, secerne una colla più resistente. Si può provare a imitare questo comportamento anche nei prodotti industriali, per testare gli incollaggi prima dell'applicazione definitiva".
La biomimetica è una disciplina recente con un cuore antichissimo: "Negli Stati Uniti", racconta Santulli, "questa scienza si è strutturata solidamente come approccio negli ultimi quindici anni (il primo libro della Benyus, "Biomimicry : Innovation Inspired by Nature" è del 1997). In Europa, i principali centri di ricerca si trovano in Inghilterra, a Reading, Bath ed Exeter". Ma l'idea di ispirarsi al grande libro della natura per trovare applicazioni scientifiche e tecnologiche è probabilmente connaturata all'uomo. Se gli antichi egizi modellavano il design delle colonne dei templi su quello delle palme, Leonardo studiava il volo degli uccelli per progettare le sue "macchine volanti".
In tempi più vicini a noi, la prima applicazione delle teorie biomimetiche fu il tetto del Crystal Palace di Londra la cui struttura, ultimata nel 1854, si ispirava a una pianta, la Victoria Amazonica, con l'idea di avere una struttura leggera e massimizzare l'insolazione. Nel Novecento il caso di maggiore successo, anche sul piano commerciale, è quello del velcro, un sistema di chiusura a strappo che fu brevettato nel 1941 dall'ingegnere svizzero George de Mestral che fu affascinato dal sistema a uncini grazie a cui i fiori della bardana rimanevano impigliati negli indumenti e nel pelo degli animali.
"Lo scopo della disciplina", chiarisce Santulli, "non è imitare una certa forma, ma capire qual è l'obiettivo che la Natura si è posta nell'utilizzarla e per il quale ci ha detto, in parole povere: questa è la risposta. Sta a noi, dedurre la domanda". Nella biomimetica insomma l'aspetto di imitazione della natura non è limitato alla dimensione estetica ma è volto a risolvere un problema funzionale.
A frenare la diffusione su scala industriale dell'approccio biomimetico sono state finora considerazioni oltre che di carattere tecnico, di natura economica. Un conto è avere un prodotto sulla carta più efficiente e forse anche meno costoso, nel medio e lungo periodo; un altro, è vincere l'inerzia che porta aziende e consumatori a preferire soluzioni consolidate e magari più a buon mercato in fase di acquisto. Un caso emblematico è quello delle superfici autopulenti: coprire un'abitazione col caratteristico rivestimento a scaglie mutuato dalla foglia del loto può costare fra il 10 e il 15 per cento in più di una copertura tradizionale. È vero che l'investimento si ammortizza nel giro di qualche anno, grazie alla minore necessità di manutenzione, ma non per tutti il gioco vale la candela.
Tuttavia, secondo alcuni studi, in poco più di un decennio tale tendenza dovrebbe ribaltarsi. Il rapporto "Global biomimicry effort. An economic game changer" commissionato un paio di anni fa dallo zoo di San Diego (la città california punta a diventare un hub per gli studi di questo campo) al Fermanian Business Economic Institute, stima in 300 miliardi di dollari annui il contributo che, a partire dal 2025, la biomimetica potrebbe dare al prodotto interno lordo dei soli Stati Uniti. Altri 50 miliardi potrebbero essere risparmiati grazie alla riduzione degli scarti e alla minora produzione di anidride carbonica resa possibile dall'approccio "naturale" ai problemi.