Votare ai referendum è una scelta di civiltà. E l'astensionismo la mette a rischio

"E gli altri?", "Li sto andando a chiamare, casa per casa"

L'8 e il 9 giugno gli italiani sono chiamati al voto per esprimersi su cinque referendum abrogativi, in materia di lavoro e cittadinanza. Prima ancora di pensare a quale potrebbe essere l'esito di questa tornata referendaria, è necessario che le consultazioni popolari siano valide, superando il quorum. La tendenza degli ultimi anni fa temere che sarà questo lo scoglio: convincere più della metà degli aventi diritto a esprimere il proprio voto.

 

Alle elezioni europee dello scorso anno, l'affluenza è stata del 48,31%, quasi due punti percentuali al di sotto della soglia del 50%. Ma se la crisi delle urne per le elezioni è figlia della sfiducia dei cittadini verso politica e istituzioni, il voto referendario parla della (s)fiducia che la società ha in se stessa. Qui non si tratta dell'approvare l'operato di una o dell'altra parte politica. È, piuttosto, una scelta di civiltà: il referendum resta uno strumento unico di democrazia diretta, per non lasciare ad altri la possibilità di decidere sulle norme contrattuali, sulla sicurezza dei luoghi di lavoro, sulla riduzione delle disuguaglianze. E di scegliere, votando, che tipo di società vogliamo essere.

 

Bisogna ridare valore a questo diritto tanto agognato e per cui tanto si è combattuto. È necessario andare casa per casa a ricordare agli elettori di rispolverare la scheda elettorale. Anche bussare alle porte delle stanze pagate a caro prezzo dai fuori sede.

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