Shiamo abituati ad associare alla morte e a tutti i rituali che l'accompagnano l'aggettivo "morboso", ma c'è un luogo dove non è così. La città di Banaras, che risponde anche ai nomi di Varanasi o Benares o Kashi, è la più antica città del mondo che sia stata abitata ininterrottamente. Chi desidera una buona morte viene a morire qui. Gli induisti credono che morendo a Banaras si raggiunga istantaneamente la moksha, la liberazione dal ciclo della nascita e della rinascita e la riunione con la natura divina di Dio. In questa città del nord dell'India arrivano per morire persone da tutto il mondo.
LA CITTÀ, CHE UFFICIALMENTE è chiamata Varanasi, esiste su due sfere, una mitica e una temporale. La città mitica si chiama Kashi ed è la città della luce divina, quella temporale risponde invece al nome di Banaras. Banaras ha due dimensioni anche rispetto al tempo. Una è riferita al presente, l'altra a una sorta di non tempo, che è un tempo delle scritture, un tempo mitico.
A BANARAS, sulla riva del fiume Gange, sorge il Manikarnika Ghat, il più grande luogo di cremazione dell'India. Da qui passano ogni anno 70 mila corpi. Le cremazioni avvengono a ogni ora del giorno: il fuoco eterno qui arde di giorno e di notte. In altre parole, «a Benares la notte non esiste, perché la notte non esiste per i morti». Dai ghat, i templi lungo il Gange, si leva dovunque il canto "Ram nam satya hain", "Il nome di Dio è verità".
YAMA, il dio della morte, non ha giurisdizione a Banaras, perché questa è la città della moksha. Yama non può entrare qui a prendersi le anime per portarle all'inferno o per farle rinascere. Shiva invece raccoglie qui a sé le anime dei morti e, sussurrando il mantra che permetterà loro il passaggio, le guida alla moksha. La morte non è dunque terrificante, sporca, segreta o vergognosa, ma di auspicio, liberatoria e aperta.
L'ULTIMO VIAGGIO a Banaras di chi qui vuole morire prevede diverse tappe. Innanzitutto, una permanenza in uno dei numerosi ospizi, permanenza che può prolungarsi poche ore o molti anni. Una volta abbandonato dall'anima, il corpo è trasportato dai parenti maschi in una bara lungo le strette stradine che portano verso il fiume e verso un ghat, come quello sacro e antico di Manikarnika. Dopo l'arrivo, del corpo passano a occuparsi i dom rajas, i re delle pire crematorie.
PER STABILIRE il costo della cremazione, i dom valutano le possibilità economiche della famiglia. Anche raccogliere l'oro dei defunti che resta tra la cenere delle pire spetta ai dom. Gruppetti di loro figli si danno da fare per trovare il tesoro tra i carboni ardenti. Né i cani né le vacche che girano tra le pire disturbano i dom o chi piange i defunti. Dalle finestre che si aprono sul ghat, i bambini fanno volare aquiloni multicolori e arriva l'odore del pranzo di mezzogiorno che le madri stanno preparando. Gruppi di turisti girano per il ghat, fermandosi a guardare qui e là, affascinati dal fatto che tutto ciò sia esibito e avvenga all'aperto.
IL CORPO DEL DEFUNTO è collocato su una pira di tronchi di legno impilati inframezzati da pezzetti di sandalo. Il figlio maggiore del dom, che ha la testa tutta rasata e indossa una veste bianca e candida, accende la pira, mentre più in basso scorre il fiume, tempestato da calendule e cenere. Quando il morto è un uomo di grande sacralità o un bambino, il corpo non viene bruciato e può capitare che rigonfio emerga in superficie.
QUANDO IL CORPO è interamente bruciato, il figlio maggiore del defunto riempie con acqua del fiume un recipiente e la getta al di sopra della sua spalla destra sui tizzoni della pira che ormai si sta spegnendo. Poi si allontana senza voltarsi cantando. «Chi vive ha voltato le spalle e si è distaccato dal morto. Oggi, le nostre invocazioni agli dei hanno prodotto buoni auspici. Ora camminiamo verso le danze e le risa, riaffermando con fermezza la nostra lunga vita».