Un ufficiale dei carabinieri assunto dai trafficanti. Il suo compito: trovare un ambasciatore compiacente per far entrare in Italia la droga. Con un esito da film: tra massoneria, 'ndrangheta e travestimenti a Fiumicino

Il colonnello al soldo dei narcos

Il calore e la felicità con il quale il boss della ' ndrangheta Francesco Strangio era stato accolto in Calabria da un tenente colonnello dei carabinieri aveva sorpreso tutti, compreso lo stesso criminale calabrese. Abbracci, sorrisi e strette di mano per saldare accordi e proseguire affari illegali. Un carabiniere infedele e uno dei più grossi trafficanti di droga, protagonisti di un'operazione che oscilla tra le trame internazionali dei narcos e le truffe della provincia italiana. Il copione è rimasto segreto fino al processo, che si è appena chiuso a Catanzaro. E ha tutti gli ingredienti di una storia da film: boss calabresi, massoni lombardi, imprenditori romani, militari corrotti, infiltrati che fanno il doppio gioco, agenti americani sotto copertura. Nella rete è finito un fotoreporter che ha cercato di vendere finti dossier anche a Silvio Berlusconi. E un immobiliarista romano, proprietario tra l'altro del Teatro Ghione di Roma, alle spalle di San Pietro, una sala da cinquecento posti dove vanno in scena i grandi nomi della recitazione. Mentre in questa storia i confini tra tragedia e commedia appaiono sfumati, confusi in un canovaccio di complicità, ferocia criminale e faciloneria da opera buffa.

Tutto comincia con quell'abbraccio incredibile a Rosarno, una delle capitali della ‘ndrangheta, nel cuore della Piana di Gioia Tauro. Parte da lì una rete criminale che abbraccia l'intera Penisola e unisce due continenti, con referenti in Colombia, Brasile e Venezuela per importare la cocaina: i canali che hanno permesso alle cosche calabresi di dominare il mercato della "neve". Il clan si era organizzato al meglio. Aveva assoldato un chimico dominicano per raffinare la droga pura che arriva dal Sudamerica e moltiplicare i proventi. E un commercialista calabrese trapiantato a Bologna, con il compito di piazzare lo stupefacente nelle ricche piazze emiliane. C'era poi un pentito calabrese che in passato aveva accettato di infiltrarsi per conto delle forze dell'ordine: nel 2010 Bruno Fuduli dopo aver ottenuto i benefici dallo Stato per la sua collaborazione, era tornato in affari con i padrini, mettendo a frutto le sue conoscenze nel settore.

Ma l'asso nella manica doveva essere proprio il tenente colonnello Luigi Verde, ufficiale con un tenore di vita altissimo e relazioni fin troppo pericolose. Ex comandante dell'Arma di Sondrio, si era infilato in parecchi business illegali prima attraverso la massoneria lombarda per poi mettersi al servizio dei boss reggini. Nel 2009 è stato intercettato per tre mesi: sono state registrate le sue conversazioni con i narcos, le riunioni per mettere a punto i traffici. Il militare parla con loro del modo più sicuro per far entrare in Italia i carichi di coca. Li incontra a Roma, a Milano, poi a Rosarno. Gli 'ndranghetisti gli affidano una missione: ingaggiare un diplomatico straniero, che possa ritirare a Fiumicino una valigia proveniente dal Venezuela forte della sua immunità. Sono convinti che grazie all'uniforme e alle sue entrature per lui non sia difficile agganciare qualcuno dei funzionari delle numerose ambasciate romane. E gli promettono un compenso di di 50 mila euro.

Ma Verde non riesce a trovare il contatto giusto, mentre i calabresi lo sollecitano e si fanno sempre più insistenti. E allora l'ufficiale si rivolge a un lodigiano, conosciuto nella loggia massonica che ha frequentato in Lombardia. Chiede aiuto a Riccardo Ossola, fotografo freelance coinvolto in passato in inchieste di droga tra Spagna e Italia. Un personaggio indecifrabile che nel 1995, come hanno accertato i magistrati palermitani, chiamava al telefono diretto della villa di Arcore di Berlusconi. I suoi rocamboleschi trascorsi li ha descritti Perla Genovesi, l'ex assistente del senatore pdl Enrico Pianetta. La donna, finita in una indagine per spaccio, due anni fa si è trasformata da collaboratrice parlamentare a collaboratrice di giustizia: ha raccontato ai pm di Palermo e Milano gli intrallazzi di molti deputati e senatori, indicando anche il nome di alcune ragazze che si prostituivano con i politici. Genovesi sostiene che Ossola avrebbe avuto in mano un falso dossier su Antonio Di Pietro e facendolo passare per originale avrebbe cercato di venderlo al Cavaliere. «Non ho mai capito cosa facesse di professione», dichiara: «So che faceva truffe. Cercava di vendere titoli all'estero, oro e orologi. Invadeva un po' tutti i campi, anche illegali. Ma si limitava a fare piccole truffe».

Quando viene contattato dal colonnello Verde, il fotografo pensa subito di potere congegnare un altro raggiro. L'ufficiale si fida di lui, sa che ha tante conoscenze in molti paesi e gli chiede di trovare un diplomatico "a disposizione" per importare droga. Gli offre 20 mila euro. Ossola non si scompone davanti alla divisa dell'Arma e punta soltanto a trovare la maniera per arricchirsi alle spalle dell'ufficiale. Assieme a un compaesano di Lodi, Giuseppe Parmesani, cercano di spillare quanti più soldi al carabiniere: sostengono di avere la persona giusta, ma vogliono subito il denaro. E prendono tempo.

Le intercettazioni mostrano l'ufficiale disperato. I boss lo tengono sotto pressione, insistendo anche in maniera violenta. E lui supplica i due compari lodigiani, implorando di conoscere il diplomatico. Alla fine Ossola e Parmesani si inventano un nome esotico e glielo mandano con un messaggino sms.

L'ufficiale è felice per l'informazione, che gira subito ai suoi amici mafiosi. A questo punto la spedizione dei 56 chili di cocaina può partire dal Venezuela, per venire ritirata a Fiumicino dall'ambasciatore. Verde avvisa Ossola e Parmesani, fornendogli le indicazioni per il prelievo. E solo allora i due capiscono di essersi messi in un guaio: non stanno ingannando solo Verde; dietro c'è un'organizzazione potente, che gli avrebbe fatto pagare quella truffa. Hanno paura, non sanno più come mettersi al riparo dall'inevitabile vendetta. Poi Parmesani decide di confidarsi con un maresciallo delle Fiamme Gialle e raccontare tutto.

La Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro stava già indagando sulla ragnatela dei narcos, con un'operazione internazionale condotta assieme al Dipartimento di Giustizia statunitense. Ora bisogna trovare il modo di intervenire senza smascherare l'inchiesta, che sta permettendo di ricostruire i canali transatlantici della cocaina. Insieme con gli americani, si decide di pianificare un diversivo che conceda altro tempo per completare gli accertamenti. Una truffa nella truffa.

Un agente di colore della Dea, la polizia antidroga statunitense, si fa passare per l'ambasciatore africano assoldato da Parmesani. Arriva a Fiumicino in auto con targa diplomatica e fa di tutto per farsi notare da Verde e dai calabresi, appostati nello scalo per vigilare. Va al ritiro bagagli per prendere la valigia zeppa di cocaina, ma scatta il colpo di scena preparato dai finanzieri: un cane antidroga fiuta la borsa e scatta un controllo, apparentemente di routine, che blocca il carico. Il finto ambasciatore si allontana velocemente mentre i calabresi non sospettano di essere stati traditi. Anzi, pensano già a preparare un'altra spedizione. E le intercettazioni possono proseguire, raccogliendo elementi preziosi sulla struttura dell'organizzazione.

La retata scatta nel dicembre 2010 e finiscono tutti in manette. Parmesani formalizza la sua collaborazione con i magistrati mentre Ossola è stato assolto nel processo. Invece l'ufficiale, immediatamente sospeso dai vertici dell'Arma, ha ammesso alcune delle contestazioni dei pubblici ministeri di Catanzaro, ma la sua versione non ha convinto il giudice: poche settimane fa è stato condannato in primo grado a 12 anni di carcere. Nei suoi interrogatori ha dichiarato che il suo compito sarebbe consistito nel trasporto della cocaina da Fiumicino ad Ariccia. Lì l'avrebbe consegnata all'immobiliarista Federico Marcaccini, che ha indicato come vicino al boss Francesco Strangio.

Marcaccini, chiamato "Pupone", è proprietario oltre che del Teatro Ghione, anche di altri edifici in tutta Italia, incluso un albergo a Taormina, sequestrati nei mesi scorsi. L'uomo d'affari avrebbe finanziato l'acquisto della coca, mettendo i capitali necessari all'operazione condotta dalle cosche Strangio e Pelle, padrini storici di San Luca. In genere, per comprare mezzo quintale all'ingrosso servono intorno ai trecentomila euro, ovviamente cash. Ma la vendita agli spacciatori avrebbe permesso di quadruplicare i guadagni, garantendo ricchi incassi a tutti i protagonisti dell'import criminale: la cocaina era destinata a Emilia Romagna e Veneto, dove Strangio e Pelle si sono radicati da anni. L'imprenditore Marcaccini è ancora sotto processo a Catanzaro. Ma l'inchiesta non è finita: il chimico dominicano e il commercialista bolognese della rete stanno collaborando con la procura di Catanzaro. E le prossime puntate potrebbero riservare altri colpi di scena, soprattutto sui colletti bianchi di cocaina.

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