Gli animalisti insorgono contro la Harlan che commercia animali da test. Senza i quali però non ci sarebbe ricerca. Così gli scienziati cercano altre strade. E la comunità scientifica si spacca

Il nuovo nemico si chiama Harlan, multinazionale del commercio di "animali da ricerca" (dai topi ai primati) con tre sedi nel nord Italia, in zona Milano, Udine e Monza e Brianza. Gli animalisti sono in trincea, con cortei e manifestazioni, per chiederne la chiusura. E replicare il successo della campagna contro Green Hill - l'azienda di Montichiari, in provincia di Brescia, in cui venivano allevati cani di razza beagle destinati alla sperimentazione - che ha portato al sequestro dell'allevamento e alla liberazione dei 2.600 e più cani presenti.

Di certo c'è che l'opinione pubblica protesterà pure quando le proteste degli animalisti degenerano, ma in fondo fatica ad accettare il sacrificio di cavie, cani, conigli o scimpanzé. Tanto che il Parlamento appena sciolto aveva pronto un testo di legge, proposto dall'ex ministro del Turismo Michela Brambilla, che sanciva misure molto più restrittive rispetto alla legge europea. E che, gli esperti avvisano, ci avrebbe messo automaticamente in infrazione rispetto a quanto previsto dalla normativa europea esponendoci alle conseguenti sanzioni. Deputati e senatori vanno a casa, ma resta il sostanziale disagio dell'opinione pubblica nei confronti della sperimentazione animale. E questo allarma la comunità scientifica perché senza gli animali da laboratorio non c'è ricerca sui farmaci. «È chiaro che non si può far tutto, che ci devono essere dei limiti di utilizzo, ma è altrettanto chiaro che non possiamo ancora rinunciare al contributo degli animali», afferma Pier Paolo Battaglini, professore di Fisiologia e capo del settore Stabulario e sperimentazione animale all'Università di Trieste. Battaglini è tra i firmatari della Dichiarazione di Basilea, un appello lanciato da ricercatori svizzeri e tedeschi con il duplice obiettivo di impegnarsi a rispettare e proteggere gli animali, utilizzandoli solo se effettivamente necessario, ribadendo però la necessità della ricerca su cavie (compresi i primati non umani).

Perché nessuno nega il tema etico e a tutti piacerebbe liberare le cavie. E non è solo una faccenda d'empatia: quale ricercatore non vorrebbe disporre di modelli ancora più affidabili e magari decisamente meno costosi degli animali? La conseguenza è che sono sempre di più gli scienziati che si impegnano nello sviluppo dei cosiddetti metodi alternativi, sistemi che possano dare risultati biomedici analoghi se non migliori di quelli che dà oggi la ricerca fatta con gli animali. A poco a poco dati, risultati e successi cominciano ad accumularsi, facendo intravedere un futuro senza cavie. Ecco qualche esempio.

BELLEZZA SENZA SOFFERENZA
Uno dei primi settori a puntare sulle alternative è stato quello cosmetico. «Da anni ormai sistemi di pelle sintetica hanno sostituito l'uso di animali nei test per valutare, per esempio, se una certa sostanza provoca irritazione o corrosione della pelle, se viene attivata dalla luce solare o se è assorbita a livello cutaneo», spiega Luca Nava, responsabile dell'area tecnica e normativa di Unipro, Associazione italiana delle imprese cosmetiche. Del resto, questo è un settore in cui anche la pressione normativa è sempre stata piuttosto forte. Già dal 2009 è vietata in tutta l'Unione europea l'esecuzione di test su animali a scopo cosmetico e da marzo 2013 dovrebbe essere vietata anche la commercializzazione di prodotti con nuovi ingredienti sperimentati su cavie. «Per garantire la sicurezza di nuove sostanze per creme, mascara o rossetti, dunque, non si potranno più usare animali», precisa Nava. Aggiungendo però che «per alcuni test, come quello di eventuale tossicità dovuta a un uso ripetuto, non si vedono ancora all'orizzonte alternative efficaci». In questi casi bisognerà capire come regolarsi.

I PASSI DELL'INDUSTRIA
Qualche passo avanti si registra anche in ambito farmaceutico: il colosso danese Novo Nordisk, per esempio, ha annunciato un anno fa di aver messo fine all'impiego di animali per testare la qualità dei lotti finali di farmaci. Per evitare il rischio di contaminazione da virus i farmaci suscettibili (come il fattore VII della coagulazione) non sono più controllati nei topi, ma sono filtrati attraverso nuovi setacci ultrafini, capaci di trattenere ogni microbo. «Non significa che non useremo più animali, perché li riteniamo ancora necessari per la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti», dichiara un video promozionale dell'iniziativa. «Ma almeno ne limitiamo l'utilizzo a situazioni in cui non se può proprio fare a meno». In effetti Magda Chlebus, direttore del dipartimento di Science policy della Federazione europea di industrie e associazioni farmaceutiche, comincia a intravedere un trend, almeno in Europa. «Negli ultimi 20 anni sono aumentati sia i Paesi che conferiscono dati ai servizi statistici della Ue, dai 14 del 1990 ai 27 di oggi, sia gli investimenti per la ricerca scientifica. Eppure, il numero di animali impiegati nei laboratori è rimasto stabile, intorno ai 10-12 milioni di individui per anno».

TEST CHIMICO PER COZZE PULITE
Un altro esempio significativo viene dal settore della sicurezza alimentare. È il nuovo test chimico per saggiare la presenza di tossine di origine marina nei molluschi bivalvi come cozze e vongole. Prima funzionava così: si preparava una specie di frullato di un campione di molluschi provenienti da un certo allevamento e lo si iniettava in un topolino. Se l'animale moriva, significava che il campione, e dunque l'allevamento, era contaminato. «Ora invece si può avere la stessa informazione con una sofistificata analisi chimica», spiega Roberto Poletti, coordinatore scientifico del Laboratorio nazionale di riferimento per le tossine biomarine. «Anzi, il nuovo test ci dice qualcosa in più, perché permette di discriminare tra varie tossine e di stabilirne la concentrazione precisa». L'esame in Italia è già metodo di riferimento per i controlli ufficiali e a partire dal 2015 sarà adottato anche nel resto d'Europa. Con grande risparmio di topolini.

FERMENTO IN ISTITUTO
Il fermento è grande anche sul fronte della ricerca di base. In Gran Bretagna c'è un intero centro nazionale dedicato a progetti su metodi alternativi. Tra questi, per esempio, lo sviluppo di un modello in vitro per lo studio di lesioni del midollo spinale: una coltura preparata con cellule di embrioni di ratto o di topo che riduce del 97 per cento il numero di animali necessari. O quello di uno speciale tessuto che permette di studiare i meccanismi alla base dell'asma combinando cellule estratte da vie aree a cellule del sistema immunitario: tutto di derivazione umana, niente cavie.

Anche in Italia, un anno fa, è stato istituito presso l'Istituto zooprofilattico della Lombardia e dell'Emilia Romagna, il Centro di referenza nazionale sui metodi alternativi, il benessere e la cura degli animali da laboratorio, che ha il compito di raccogliere tutte le esperienze italiane in questo settore: «Per il momento, tra università e industria abbiamo contato un'ottantina di gruppi che lavorano su questi temi», racconta la direttrice Maura Ferrari. Che è anche a capo di un'équipe che sta tentando di sviluppare una batteria di test in vitro per valutare la sicurezza delle cellule staminali da utilizzare in ambito terapeutico: «Oggi questa valutazione viene fatta ricorrendo a test su animali: l'idea è che un giorno la nostra batteria possa affiancare o sostituire le indagini in vivo».

NUOVA TOSSICOLOGIA
Negli Stati Uniti i maggiori enti federali che si occupano di ambiente, salute e farmaci hanno dato vita di recente a un'immensa piattaforma collaborativa con l'ambizioso obiettivo di mappare tutte le vie biochimiche che, in una cellula, si attivano quando quella cellula viene in contatto con una sostanza tossica. «Quando saranno note, la pericolosità di una sostanza potrà essere facilmente valutata con saggi molecolari in vitro, senza ricorrere ad alcun animale», spiega Thomas Hartung, che è a capo del programma e che parla di «progetto tossicoma umano». Naturalmente, perché tutto ciò diventi realtà occorre mettere in campo una potenza di fuoco incredibile, in termini di strumentazioni, personale e finanziamenti. Però basta pensare alla quantità di nuove sostanze di cui ogni giorno è necessario testare la sicurezza - che si tratti di farmaci, coloranti o, poniamo, di nuove componenti per detersivi - per capire che il risultato potrebbe essere rivoluzionario.

VERSO GLI ORGANI ARTIFICIALI
«E non è tutto», afferma Candida Nastrucci, esperta di metodi alternativi agli esperimenti sugli animali e coordinatrice scientifica di un corso su queste tematiche che dovrebbe essere attivato presso l'Università di Roma Tor Vergata: «Sono infatti sempre più diffuse anche linee di ricerca che puntano allo sviluppo di modelli in provetta capaci di simulare la fisiologia di un intero organo o addirittura organismo».

Pioniere di questo campo è il bioingegnere Donald Ingber, dell'Harvard Medical School, al quale si deve la realizzazione di un vero e proprio polmone artificiale delle dimensioni di un francobollo: un dispositivo di microfluidica fatto di una lastrina di vetro, una membrana porosa e delle cellule umane. Ingber ha mostrato che il suo micro-polmone è in grado non solo di respirare normalmente, ma anche di simulare una condizione patologica come l'edema polmonare. «In Germania, invece, oltre 70 laboratori partecipano a un network per lo sviluppo di un fegato virtuale, finanziato per ben 43 milioni di euro», racconta Nastrucci. «E altri gruppi in tutto il mondo lavorano su sistemi in grado di simulare le interazioni di più organi contemporaneamente». Se oggi molti ritengono che, per quanto imperfetti, gli animali siano ancora i modelli più vicini all'uomo, domani la disponibilità di dispositivi capaci di mimare alla perfezione ciò che avviene nel nostro organismo potrebbe cambiare radicalmente le cose.

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