Alla fine anche la Food and Drug Administration si è dovuta chiedere se è proprio tutto oro quello che luccica. La scorsa primavera, l’agenzia statunitense che autorizza farmaci e dispositivi medici ha messo sotto osservazione speciale il Da Vinci, il “robot chirurgo” prodotto dalla società californiana Intuitive Surgical cui nel 2000 aveva spalancato le porte delle sale operatorie d’America, e da lì del mondo intero.
I chirurghi lo usano sempre di più: oltre 367 mila interventi nel 2012 negli Usa, il 26 per cento in più rispetto all’anno precedente. Ma con gli interventi crescono anche gli adverse events reports che si accumulano sul tavolo della Fda, rapporti che i chirurghi devono obbligatoriamente presentare ogni volta che qualcosa va storto. Lo scorso anno quelli legati al Da Vinci sono stati 282, il 34 per cento in più rispetto al 2011.
A volte intoppi tecnici senza conseguenze, a volte errori compiuti dai chirurghi che manovravano il robot, perché un tema forte è quello della formazione non sempre all’altezza. Ma in qualche caso, rimbalzato sui grandi quotidiani americani, pazienti che hanno subito lesioni e danni permanenti dopo l’operazione hanno fatto causa alla stessa Intuitive, accusandola di non formare a dovere i chirurghi e di fare marketing troppo aggressivo per convincerli a usare il robot anche quando non ce ne sarebbe bisogno.
E così la Fda ha avviato un’indagine per capire se quella che sembrava la più grande rivoluzione vista in chirurgia negli ultimi decenni stia davvero mantenendo le promesse. La risposta interessa molto anche noi, perché l’Italia è il Paese europeo che ha speso di più per il Da Vinci, ed è anche il Paese in cui potrebbero nascere tecnologie alternative, se solo si trovasse qualche soldo per sostenerle.
LEONARDO IN SALA
Il Da Vinci (chiamato così in omaggio a quel Leonardo che progettò i primi robot della storia) non sostituisce il chirurgo, ma ne diventa un’estensione. Ha quattro bracci alle cui sottilissime estremità (poco più che aghi) sono montati strumenti per tagliare, cauterizzare, suturare. Il chirurgo lo manovra da una console, di solito fuori dalla sala operatoria. Una microcamera su un endoscopio gli restituisce immagini 3D e ingrandite degli organi interni del paziente, che osserva su uno schermo. Può controllare con naturalezza, come fossero sue, quelle piccole “manine”, che eseguono movimenti controllati al millimetro impossibili per delle mani vere. E per entrare nel corpo del paziente bastano minuscoli fori, anziché tagli con il bisturi.
In questo modo il Da Vinci consente, sulla carta, interventi meno invasivi, operazioni non praticabili con tecniche tradizionali, ricoveri più brevi. Meno rischi, sanguinamenti e cicatrici. Queste promesse hanno consentito alla Intuitive di vendere oltre 2.500 esemplari in tutto il mondo.
In Italia i robot si sono affacciati in sala operatoria prima timidamente, ma dal 2006 in poi è stata un’invasione. Oggi siamo il terzo Paese al mondo dopo Usa e Giappone che ne ha di più: ben 66, che nel 2012 hanno eseguito più di 7 mila interventi. Soprattutto su tumori dell’utero o della prostata, ma anche su cuore, polmoni, apparato digerente.
La Toscana per esempio ha ben sette Da Vinci nei suoi ospedali, numero giudicato eccessivo dagli stessi chirurghi che li usano. Mettersi in casa un Da Vinci, d’altronde, è anche una bella operazione di marketing per gli ospedali, e qualche volta per le fondazioni bancarie che danno una mano a comprarlo.
I casi di cronaca americani non hanno scalfito più di tanto la fiducia dei chirurghi italiani. «Il caso che ha fatto più rumore in America è quello di una sutura che non si è rimarginata dopo un’asportazione dell’utero», spiega Ugo Boggi, direttore della chirurgia generale all’Ospedale di Pisa, uno dei principali “Davincisti” (si chiamano così) in Italia: «Se succede una volta è un problema del chirurgo, non della tecnologia. Quello che dobbiamo capire è se succede più o meno spesso che con altri sistemi».
E per la cronaca, la prima causa arrivata effettivamente davanti a un giudice Usa l’ha vinta la Intuitive. Ma il vero problema è che 13 anni e migliaia di interventi dopo l’arrivo del Da Vinci non è ancora chiaro se i vantaggi valgano fino in fondo i suoi costi: circa 2,5 milioni di euro per l’acquisto, più onerosissimi contratti di manutenzione e materiali monouso che costano circa 1.500 euro per ogni intervento. Come annota Marina Cerbo, dirigente della sezione Innovazione, sperimentazione e sviluppo di Agenas, l’agenzia che monitora costi e prestazioni del sistema sanitario italiano: «La quantità e qualità degli studi sono insufficienti a dimostrare la superiorità della chirurgia robotica».
«Per misurare i vantaggi servono grandi numeri di interventi, e l’uso del robot è ancora troppo recente per metterne assieme abbastanza», spiega Giuseppe Spinoglio, direttore di chirugia generale all’Ospedale di Alessandria e presidente della Clinical Robotics Surgery Association: «D’altronde anche la laparoscopia si usa dai primi anni ’90, ma per dire con certezza che è più vantaggiosa della chirurgia “a pancia aperta” abbiamo dovuto aspettare fino pochi anni fa».
La chirurgia laparoscopica è un’altra tecnica poco invasiva: si inseriscono nell’addome del paziente, attraverso un forellino, sottilissimi tubi dotati di fibre ottiche e di microstrumenti chirurgici, che il chirurgo manovra dall’altro capo del tubicino. I movimenti sono più limitati rispetto alla chirurgia robotica, e non c’è il raffinato servocontrollo del Da Vinci: insomma, se trema la mano del chirurgo trema anche lo strumento che fa l’incisione. Ma il costo dell’attrezzatura è di gran lunga minore (qualche decina di migliaia di euro), e i risultati buoni.
DILEMMA OPERATORIO
I chirurghi tendono così a dividersi in fazioni: “robotici” da una parte, aficionados della laparoscopia dall’altra. Chi ha scelto di non usare il Da Vinci è categorico, come Alberto Arezzo, specialista di chirurgia digestiva all’ospedale Le Molinette di Torino. «Non ci crediamo perché abbiamo constatato che in chirurgia digestiva non ci sono vantaggi, qualunque paramnetro si consideri: tempo operatorio, complicanze, sanguinamenti, lesioni interne durante l’intervento... L’unica cosa certa sono i costi».
Che il robot sia usato più di quanto sarebbe il caso lo ammettono anche gli entusiasti del robot, come si autodefinisce Ugo Boggi. «Dovrebbe essere usato solo per interventi molto complessi in cui la zona da operare è difficile da raggiungere, o in cui è particolarmente delicata la fase di suturazione, che con il robot si fa meglio. In realtà, una volta acquistato, c’è una certa tendenza a usarlo più possibile».
Anche per interventi che si potrebbero fare con minore spesa in laparoscopia, se non addirittura a cielo aperto. Ma i vantaggi ci sono, ribadisce Boggi: «Io ho fatto con il Da Vinci interventi che una volta richiedevano di prosciugare il centro trasfusionale. Con il robot la perdita di sangue è talmente ridotta che in poche ore i pazienti erano in piedi». E il problema dei costi, spiega, andrebbe guardato in maniera più ampia. «Prendiamo la chirurgia della prostata. Si può fare anche a cielo aperto, il paziente va a casa dopo una settimana e l’intervento costa sicuramente meno. Ma con la chirurgia robotica la differenza vera si vede dopo, perché si riducono i rischi di incontinenza e impotenza, che a loro volta richiederebbero trattamenti dopo l’operazione che qualcuno deve pagare».
MONOPOLIO AMERICANO
Perché certo il problema dei costi difficilmente si risolverà finché quello della Intuitive resterà un monopolio, protetto da decine di brevetti sui componenti del Da Vinci che hanno impedito la comparsa di altri robot in sala operatoria. «Il più importante riguarda il “polsino” che permette di fare le suture», spiega Arianna Menciassi della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, uno dei più importanti centri di ricerca europei sulla robotica: «Scadeva l’anno scorso, e in molti pensavamo che subito dopo sarebbe apparso qualche concorrente». Invece niente, secondo Menciassi anche perché le cause legali negli Usa più che indebolire la Intuitive hanno scoraggiato i potenziali concorrenti: «Intuitive ha spalle larghe e può far fronte alle spese legali. Una piccola start up ci pensa due volte, e se non lo fa lei lo fanno gli investitori che dovrebbero sostenerla».
Peccato, perché così restano nel cassetto le molte innovazioni che proprio centri come il Sant’Anna potrebbero introdurre. «Il Da Vinci usa tecnologie di dieci anni fa», continua Menciassi: «Ma nel frattempo ci sono stati molti progressi in robotica. Si potrebbe mettere più intelligenza a bordo: i bracci del Da Vinci si possono scontrare tra di loro se il chirurgo fa un errore, mentre sarebbe banale impedirlo con un sistema automatico di evitamento degli ostacoli. Ancora, il chirurgo non ha modo di capire se sta facendo troppa pressione con gli strumenti: lo capisce solo quando vede che il tessuto del paziente diventa bianco, grazie alla visione 3D che per fortuna è ottima. Le tecnologie per dare al chirurgo il senso del tatto oggi esistono, ma aggiungerle al Da Vinci costerebbe, e senza concorrenza Intuitive non ha motivo di farlo».
Il gruppo di Menciassi ha inserito molte di queste innovazioni nel suo Sprint, un prototipo di robot per chirurgia mini invasiva più piccolo ed economico del Da Vinci, ma si è vista sbarrare le porte dei finanziamenti: i venture capitalist che hanno sondato il terreno hanno calcolato che per scalfire la posizione di mercato di Intuitive e rientrare dell’investimento servirebbero dai sei ai nove anni: troppi.
«Il fatto che qualcuno possa bloccare il mercato in questo modo è un problema per i pazienti», sintetizza Alberto Arezzo, che per quanto si arruoli tra gli anti-Da Vinci è stato tra i pionieri della chirurgia robotica, e in Germania alla fine degli anni Novanta progettò un prototipo simile al robot Intuitive: «Quello che non perdono alla Intuitive è di promuovere a tutti i costi una tecnologia che avrebbe ancora bisogno di sviluppo. Che i robot possano essere d’aiuto in chirurgia è fuori di dubbio, ma che questo stato dell’arte sia davvero d’aiuto, su questo i dubbi ci sono eccome».