Il 22 novembre del 1963 l'assassinio del presidente a Dallas. L'America si prepara a commemorarlo, e a chiedersi chi e perché lo uccise. Apre le danze New York, con una mostra che segnala la sconfitta del fotogiornalismo tradizionale e l'avvio di una nuova era: il "citizen journalism"
La curva è secca, a gomito. Sono le 12.29, quando la limousine entra in Dealey Plaza. Lungo le strade attraversate dal corteo presidenziale sono assiepate migliaia di persone. Molte, tra loro, hanno una macchina fotografica: c'è JFK, è un evento da immortalare.
Dallas, 22 novembre 1963. Sui sedili posteriori della Lincoln, il presidente John Fitzgerald Kennedy e la moglie Jacqueline. Sorridono, salutano la folla. La visita sta procedendo come da protocollo, fugando i timori della vigilia. E invece no.
Il primo sparo, quando l'auto imbocca Elm Street, va a vuoto. Il secondo, rimbomba cupo pochi istanti più tardi. Colpito, JFK si porta le mani alla gola. La First Lady cerca di capire cosa sia accaduto. Il terzo colpo, quello mortale, fa letteralmente esplodere il cranio di John Fitzgerald. Chi non ha visto, almeno una volta in vita sua, quel filmato? Mostrato per la prima volta in tivù agli americani solo dodici anni più tardi, non fu girato dalla CNN (fondata solo nel 1980) né dalle decine di cameramen accreditati, ma dalla cinepresa di un semplice curioso, il sarto Abraham Zapruder, sceso in strada per assistere al passaggio del corteo.
Quei 26 secondi d'immagini, così altamente drammatiche, costituiscono ancora oggi uno dei documenti fotogiornalistici più significativi e brutali della nostra storia recente. Ma non c'è solo il video di Zapruder, nel “Dallas File”. Sull'altro lato di Elm Street c'è la signorina Mary Moorman, con la sua Polaroid in bianco e nero. Scatta una foto pochi istanti dopo lo sparo mortale. E finisce nella Storia anche lei.
Saranno più di settecento, le foto amatoriali scattate in Dealey Plaza e fatte pervenire alla polizia. Foto che confermano la verità giudiziaria finale: tre colpi, e un unico sparatore: Lee Harvey Oswald. Foto che confermano la tesi del complotto: quattro colpi, almeno due sparatori. Mezzo secolo dopo, l'America è ancora lì a chiedersi cosa sia successo quel giorno. Gli occhi dei molti spettatori muniti di macchine fotografiche, non quelli dei fotografi professionisti, ci restituiscono le immagini più vivide di quel giorno. “La sconfitta del fotogiornalismo tradizionale”, teorizza l'International Center of Photography di New York che alla vigilia dei cinquant'anni dall'assassinio inaugura nei suoi spazi espositivi nel cuore di Manhattan una mostra destinata a riaprire l'open wound, la ferita ancora aperta. “A Bystander View of History”, è il titolo: la Storia vista (e raccontata) da chi c'era. Strano, però. Qualcuno ci aveva fatto credere che il cosiddetto citizen journalism fosse un fenomeno figlio dell'era 2.0. La fotografia digitale, smartphone e tablet. Tutto facile, tutto veloce, tutto lì a portata di mano. E miliardi di scatti, ovunque, in ogni momento. I cittadini che si fanno reporter, per caso o per vocazione. Tutto questo suona tremendamente moderno; eppure, la mostra dell'ICP ci vuole dire che fu proprio a Dallas che il giornalismo partecipativo fece il suo trionfale esordio, mezzo secolo fa.
Oggi, qualunque evento pubblico “rischia” di essere documentato da una moltitudine di persone, da ogni angolazione possibile. Nel 1963 non esisteva Internet. C'erano i giornali, ovviamente. Radio e televisione. Sul mercato, i prezzi delle macchine fotografiche si fecero più abbordabili e la geniale intuizione della Polaroid, con le sue foto istantaneee, fece il resto. La middle class si appropriò del mezzo: e allora, quale occasione migliore di una visita presidenziale, per scattare foto memorabili? L'attentato di Dallas si rivela così, oggi, uno straordinario documento sulla fotografia popolare degli anni Sessanta. Un'esplorazione che sembra condannare alla sconfitta senza appello i fotoreporter professionisti. Il video di Zapruder, la Polaroid di Mary Moorman, la foto di Lee Harvey Oswald (l'assassino “ufficiale” di JFK) nel retro di casa sua con il fucile imbracciato – scattata dalla moglie del killer, divenne la copertina di Life – sono le “chicche” della mostra, che raccoglie anche scatti popolari inediti, acquisiti proprio in questa occasione.
La mostra dell'ICP è solo l'inizio. Dallas si appresta a commemorare JFK con una cerimonia dai contorni ancora non ben definiti, ma che non sarà esattamente sottotono. Giornali come il Dallas News e agenzie come AP vendono online set di fotografie dell'epoca; Oliver Stone ha annunciato che il suo film JFK tornerà in Blu-ray nelle sale americane a partire dal 12 novembre mentre il Newseum di Washington promette una mostra con “memorabilia” dell'epoca, tra cui gli indumenti da detenuto indossati da Oswald il giorno della sua uccisione per mano di Jack Ruby: evento a sua volta immortalato da cineprese e macchine fotografiche.
E poi una nuova infornata di libri (per lo più a sostegno della “Conspiracy”) e decine di talk-show televisivi. Cinquant'anni dopo, il mito di JFK mantiene tutta la sua aura carismatica. Chissà se Obama vorrà esporsi e dire qualcosa su temi a lui molto cari: Verità e Giustizia.