E’ il 79esimo soccorso in mare dall’inizio dell’anno, qui, con punte di tre sbarchi al giorno in agosto.
In tutto 9700 persone in fuga. Migranti, profughi di guerra, clandestini. Un’estate che forse passerà alla storia, come quella dello sbarco degli alleati su queste coste, 50 anni fa.
Dietro le sbarre uomini dallo sguardo stanco e la barba lunga, che raccontano di una notte tesa e di impronte digitali prese con la forza. Qualcuno mima i gesti violenti dei poliziotti e i polsi stretti dalle manette. Un signore di mezza età urla che un interprete lo ha ingannato, dileggiato, umiliato. Un altro con le stampelle dice che lo tenevano in quattro.

Chiedo quanti sono stati identificati con le impronte e mi passano una lista di diciannove nomi scritta su un pezzo di cartone. Qualcuno chiede perché non c’è nessuno che spieghi quali sono i loro diritti. E assista all’identificazione. Non ho risposte. Neanch’io potrei stare lì. Arriva il pullman che li porterà all’Umberto I, la struttura per la permanenza temporanea per gli immigrati clandestini a nord della città, che è al collasso dall’inizio dell’estate. Come il Cpa al porto di Pozzallo gestito dal comune della cittadina ragusana, dove le presenze contate oggi sono 288, compresi i sopravvissuti spiaggiati a Samperi, il litorale caro al commissario Montalbano. Scatto una foto dietro il cordone della polizia mentre salgono.
LA STORIA DI AMJAD
Sul piazzale del porto c’è anche Amjad, che è arrivato dal Canada e aspetta la sua famiglia dalla Siria: 16 persone, i tre fratelli con le mogli, il padre ultrasettantenne, due cognati e sette nipotini partiti da Alessandria d’Egitto. E’ riuscito a contattarli un paio d’ore prima. Comunicazione breve ma essenziale: sono arrivati i soccorsi. Il suo telefono squilla ripetutamente. La notizia della tragedia a Lampedusa ha già fatto il giro del mondo, come le immagini dei corpi degli annegati coperti dai teli neri sul molo dell’isola. Gliele mostro senza parole mentre chiamo la Guardia costiera: sono stati sbarcati a Portopalo altri 217 Siriani, avvistati da un aereo a 11 miglia a sud-est dell’Isola delle correnti. E il soccorso non è stato semplice, con vento a 25 nodi e il mare forza 5.
Amjad è in ansia, teme che la sua famiglia, scampata alle onde del Mediterraneo, finisca nella rete del protocollo di Dublino e sia costretta a restare in Italia. E’ palestinese, ha 45 anni, vive da 15 a Toronto. I suoi vivevano a Damasco, anzi a Iarmuk, un quartiere di rifugiati con più di un milione di abitanti preso di mira dai missili di Assad, e pensano di andare in Svezia. I Siriani possono andare in altri Paesi arabi, in Turchia, Tunisia, Giordania, Libano.

Ai palestinesi non resta che affrontare il mare. “Il 70 per cento di chi arriva è palestinese e sogna la Svezia, non tanto per il sussidio economico a chi richiede l’asilo, ma perché lì è più veloce il ricongiungimento familiare”, spiega mentre lo accompagno in auto a Portopalo. Mi racconta che i suoi non avevano più niente da perdere. La loro vita era già in pericolo. E che a lui non restava che investire tutti i suoi risparmi in questo esodo: 40mila dollari.
E’ volato in Egitto, qualche settimana fa, e adesso è qui, con una carta geografica dell’Europa e un aereo di ritorno tra tre giorni. Gli riassumo l’intervista esclusiva nella residenza del presidente di qualche giorno fa su Rainews, e il suo commento ad ogni passaggio è lo stesso: Assad mente. Sulle armi chimiche, sui ribelli, su chi li appoggia. Su tutto. “E’ un folle, e il suo è un governo corrotto e mafioso”, dice.
Lungo il recinto del mercato ittico c’è una rete da pesca stesa per terra e il cancello è aperto. Tre tende da campo, due volanti, abiti stesi ad asciugare al sole del primo pomeriggio, un camion per lo spurgo della fogna. Una coda per gli abiti asciutti. C’è chi si fa rasare e chi si pettina. Chi regge un cellulare in carica, che pende fuori dalla finestra del bagno.
Un tipo sulla cinquantina, col volto appena rasato, ex agronomo, spiega che ha già consegnato una lista dei nomi con le famiglie che saranno trasferite per prime. Stavolta non in un centro per immigrati coi materassi ammassati, ma in un agriturismo a 50 km da qui. Amjad ritrova e bacia i fratelli della moglie: uno era impiegato statale, l’altro lavorava in un distributore. “Hanno visto la morte in faccia diverse volte”, traduce per me, “e l’ultima è stata durante il trasbordo sulla barca di 16 metri”. Scopre che uno dei suoi fratelli è finito in acqua di notte con la moglie ed è salvo perché avevano comprato dei giubbotti salvagente prima del viaggio per mare, e che il padre si è schiacciato la falange di un dito ed è stato portato in ospedale, come una delle cognate, che è incinta di sei mesi.
I dettagli dell’ultima parte del viaggio per mare somigliano a quelli di altri. Dalla nave madre a una barca di legno, con un telefono satellitare e un numero di telefono a cui dare l’allarme e le coordinate del Gps. Stavolta gli scafisti avevano detto che erano a 4 ore dalla costa, invece ce ne sono volute 22 prima di essere soccorsi dai mezzi della Guardia costiera.
Ma dai frammenti dei racconti della vita in Siria traspare un orrore assurdo e quotidiano che riesco appena ad immaginare. Si è sparsa la voce che c’è un reporter e più d’uno si avvicina. Chiedo dei combattimenti, delle armi, delle forze in campo. Alcuni sono fuggiti da mesi dalle loro case e sono sfollati in aree considerate più sicure, anche se semidisabitate e l’esercito è nelle strade. I prezzi sono quasi decuplicati e il cibo scarseggia. A Iarmuk, come altrove, non c’è lavoro. I sussidi dell’UN scarseggiano. Scuole e ospedali sono chiusi. A Damasco le truppe di Assad controllano il centro, mentre le forze antigovernative sono sparse in aree periferiche, e circondate a loro volta dall’esercito. La città è un susseguirsi di posti di blocco, con soldati ad ogni strada, e armi ovunque: carri armati, kalasnikov, missili.
Un tipo con un cappellino con la visiera si tira su la maglia e mi mostra il segno di un proiettile di un cecchino sulla pancia. Era impiegato statale, ma ha tenuto nascosta la sua ferita. Scopro che i militari uccidono chi va in ospedale a medicarsi, perché un civile è considerato alla stregua un ribelle. Un ragazzo ha una cicatrice sulla gamba, un altro il segno di una granata vicino all’ombelico. Con l’ipad scatto delle foto, anche se non potrei, perché non sono autorizzata a stare nell’area dei clandestini in attesa delle procedure di identificazione. Un altro racconta che ha un figlio in Turchia e uno in Svezia e mancava poco perché potesse raggiungerlo. Ma aspettare era troppo rischioso: aveva portato delle medicine nelle zone controllate dai ribelli. Un altro degli sbarcati racconta che era stato a lavorare per sei anni a Cipro, era tornato in Siria con un piccolo gruzzolo e voleva comprarsi un’auto. E’ andato in banca a cambiare dei dollari, glieli hanno rubati ed è finito in carcere. E’ uscito pagando 20mila dollari per corrompere più d’uno.
Un giovane sulla trentina, con gli occhi chiari, è fuggito da Homs, uno dei luoghi più devastati dai bombardamenti di Bashar al Assad. Come Berlino nella seconda guerra mondiale, sottolinea qualcuno. Lui era farmacista, ed è stato rapito, nel novembre del 2011, perché aveva venduto bende e cerotti a chi era ferito. E’ stato rilasciato solo perché era diventato chissà come merce di scambio prigionieri dell’esercito e prigionieri delle forze antigovernative. Mi mostra una cicatrice che ha sul naso, tra le sopracciglia, il segno delle bende tenute sugli occhi per mesi.
Le nipotine di Amjad sorridono mentre lo zio le fotografa prima che salgano sul pullman. Lui annota in un taccuino l’indirizzo dell’agriturismo, lo cerca sulla mappa che ha con sé. Mi avvicino ad un capannello di bambini che attorniano incuriositi un poliziotto. Ha in mano un dizionario di arabo e gioca con loro, scrive su pezzo di carta i loro nomi e loro ridono dei suoi errori. “Ho cominciato a studiare un anno fa, quando mi hanno trasferito a Catania”, spiega il giovane in divisa, “prima ero nel servizio delle scorte in Calabria. Un’estate che non dimenticherò, questa nel siracusano, ad accogliere le famiglie sfollate”. E mi chiede: “Ma che ne pensa dell’intervista ad Assad ? Sembrava ci fosse un fondale nella inquadratura, quasi un fotomontaggio”.
Tiro fuori la macchina fotografica e i bambini si mettono in posa, accennano un sorriso. Scatto un paio di ritratti col campo degli sfollati come sfondo. Qualcuno mi chiede dove dormiranno, se ci saranno tende divise per donne e uomini. Una donna cerca delle scarpe per il bimbo che ha in braccio. Il sindaco le risponde “wait” e in dialetto aggiunge: “ci levamo a mio nipote”. Un giovane mi chiede come mai non c’è la Croce rossa. Spiego che prima c’erano due operatori dell’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, che partecipano ad un progetto dell’Ue che verifica gli standard di accoglienza dei migranti, ma che adesso sono andati a Pozzallo. Ho preso di vista Amjad. Non lo trovo. Non ho il suo numero di cellulare. Inshallah.
Lo rivedo alla stazione di Siracusa due giorni dopo. Mi racconta che è uscito dal cancello, quando era quasi buio, assieme ai due cognati, e ha camminato dal porto fino al paese, poi ha preso un taxi. E l’indomani ha recuperato con un minivan il resto della famiglia nel casolare in mezzo alla campagna di Noto. Partiranno tutti in treno, per Milano. Ma due dei fratelli andranno da lì in Olanda, e non più in Svezia, nella speranza che ci siano più opportunità per trovare lavoro. Puntano alla Svezia Ahmad, 43 anni, che aveva una piccola ditta di computer e sua moglie Inas, in attesa del terzo figlio. “I bambini erano così eccitati dal verde che non volevano dormire, non smettevano di rincorrersi e di giocare” racconta la mamma, che ha 29 anni, mentre la piccola tiene in mano una Barbie senza vestiti coi capelli biondi ritti in testa. “In Siria erano sempre chiusi in casa, senza tv, senza pc. Ho cercato di mentire, quando c’erano le bombe, ho detto che era una festa, poi hanno visto le case e le strade distrutte. E’ per loro che siamo fuggiti. Non credo torneremo mai in Siria. I palestinesi non hanno diritti in nessun Paese, cerchiamo solo un luogo dove vivere”.
LUNGO I BINARI DEL TRENO
Lungo i binari del treno si è radunata una piccola folla di fuggitivi. Famiglie con pochi bagagli e un cumulo di ricordi da dimenticare. Quelli che fanno più male, adesso, in un luogo che sembra libero, sono i più recenti. Mohamed, 26 anni, elettricista, è arrivato a Lampedusa con la sua famiglia di 20 persone da Zwara, dalla Libia. Un inferno quasi peggiore della Siria, un paese nel caos in mano a bande criminali armate. Ragazzini coi fucili che sparano per gioco per le strade. Racconta che la notte prima hanno trasferito 80 di loro a Pozzallo, perché il centro dell’isola scoppia. Avevano scritto un messaggio in inglese, in cui ringraziavano gli Italiani per l’accoglienza, spiegavano che avevano amici e parenti altrove che li aspettavano, e li pregavano di non prendere loro le impronte digitali. Quella mattina hanno consegnato il messaggio ad un poliziotto che lo ha stretto tra le mani ed ha urlato: “Qualcuno da Roma è venuto qui a controllare”.
Così li hanno costretti con la forza perché si opponevano, tra le urla e pianti dei più piccoli. Una donna incinta è stata buttata a terra, ad un’altra hanno strappato il velo, un uomo è stato scagliato contro una parete, malgrado avesse suo figlio in braccio. E’ qui anche lui: mi mostra la cicatrice sull’occhio del piccolo e la lente degli occhiali rotta. Si chiama Yehea, ha 28 anni e faceva il tipografo ad Homs. Un altro giovane di 30 anni, pasticcere, è sfuggito ai cecchini ma non alla violenza dei poliziotti, che l’hanno colpito con un’arma elettrica finché ha perso i sensi. Ha lasciato a Iarmuk una bimba di un anno, la madre e la moglie. Ha pagato 1200 dollari per arrivare in Egitto e 3000 per la traversata. Ma il suo sogno di una vita migliore e il futuro della sua famiglia dipende da quei segni dattiloscopici registrati in Eurodac, il sistema che archivia le impronte di chi entra clandestinamente in Europa.
Mi avvicino alle famiglie in partenza per il Nord, spiego loro che il treno si spezzerà per entrare nel traghetto che attraversa lo stretto e che dovranno cambiare la mattina a Napoli, perché non c’è più un treno diretto per Milano dalla stazione più a Sud d’Europa.
Tiro fuori la macchina fotografica, chiedo se posso scattare. “No problem”, mi risponde una ragazza sorridendo, “Nella didascalia puoi scrivere “people without country”.