Non se ne discute a scuola. Alle ragazze non ne parlano i ginecologi. Gli anticoncezionali costano troppo e i medici non sono preparati. Così l’ignoranza sessuale dilaga. "Nel Paese di verificano ancora 9 mila maternità in ragazze di età inferiore ai 19 anni, un numero altissimo. È evidente che c’è un problema di conoscenza"

Basta poco: una distrazione, una dimenticanza, anche solo un po’ di sfortuna. Se si hanno vent’anni e una giovinezza ancora da assaporare, gli studi da portare a termine, o semplicemente se non si è nelle condizioni di affrontare una gravidanza o la maternità, una disattenzione durante un rapporto sessuale può costare cara. Tanto più che nessuno ti ha guidato attraverso la scelta di un contraccettivo, che il medico glissa sull’argomento, che le pillole costano care. Insomma, tutto converge a negare alle ragazze italiane la bell’idea di fare sesso senza l’incubo di una gravidanza non desiderata.

È la vita delle giovani donne in un Paese che sembra rimasto indietro di mezzo secolo e spesso nega i diritti più elementari in tema di salute sessuale e riproduttiva. Lo dicono con una certa veemenza i ginecologi riuniti a Napoli all’ultimo congresso nazionale delle società scientifiche del settore (Sigo, Aogoi, Agui), che tracciano un panorama sconsolante del Paese: zero educazione sessuale nelle scuole, scarsa formazione (per non dire ignoranza) tra gli stessi medici di famiglia e persino tra gli specialisti. E ancora: pochi consultori abbandonati a se stessi, una crescita dell’obiezione di coscienza che rende ancora più doloroso il trauma dell’aborto volontario.

NON CI RESTA CHE IL COITO INTERROTTO.
A essere disseminato di ostacoli è tutto il percorso di una donna verso la contraccezione. «È un tema sostanzialmente trascurato dalle autorità sanitarie, visto che manca una politica nazionale sulla contraccezione, e sta diventando sempre meno remunerativo - e dunque meno appetibile - anche per le aziende farmaceutiche, che fino a qualche tempo fa erano invece protagoniste della formazione dei medici», commenta Marina Toschi, ginecologa e presidente di Agite, l’associazione dei ginecologi territoriali. Anche nella preparazione universitaria la contraccezione è l’ultima ruota del carro, mentre l’aggiornamento degli specialisti prevede, quando va bene, una giornata l’anno. «Così può succedere che tra gli stessi ginecologi si diffondano stereotipi - la pillola fa ingrassare - o errate convinzioni sulla sicurezza e l’efficacia di metodi contraccettivi come i dispositivi intrauterini (Iud), accusati di non essere adatti alle donne in giovane età per problemi legati al rischio di infezioni o di sterilità», spiega Valeria Dubini, vice presidente di Aogoi.

Sesso

Risultato: in Italia, a differenza del resto d’Europa, la spirale è utilizzata appena dal 7 per cento delle coppie. Così gli italiani continuano imperterriti a fare affidamento sul coito interrotto. «Nel 1979 era praticato dal 46 per cento delle coppie, nel 2006, anno della nostra ultima rilevazione, dal 22 per cento del campione, seguito a breve distanza dal profilattico al 19 per cento», spiega Maria Castiglioni, docente di Demografia all’Università di Padova. Il perché è presto detto: si tratta di metodi che non prevedono l’intervento del medico, e dunque possono essere gestiti all’interno della coppia, continua la demografa, che nel nostro Paese non vede di buon occhio la presenza di un terzo elemento nelle decisioni relative alla vita sessuale.

La pillola, dal canto suo, arranca. La ricerca europea “Barometer of women’s access to modern contraceptive choice”, che ha coinvolto una decina di paesi europei tra cui il nostro, mostra come meno del 16 per cento delle italiane scelgano la contraccezione moderna, un dato che ci pone agli ultimi posti in Europa. Di queste donne, poi, solo il 2 per cento usa la pillola regolarmente, contro il 41,5 per cento delle francesi. Per questo la Smic ha stilato una lista di proposte per il family planning, tra cui spicca la richiesta di cambiare il sistema di prescrizione per la contraccezione ormonale, così che basti una singola ricetta annuale per coprire 12 mesi di assunzione, sia su ricetta del Ssn che su ricettario bianco, per evitare alle donne di dover tornare dal medico più volte nell’arco dell’anno, visto che per la pillola è necessaria la prescrizione. Eppure, dicono i ginecologi dell’Agite, anche in questo caso l’Italia è un’eccezione rispetto all’Europa: «I medici», ricorda Toschi, «tendono a prescrivere le pillole di terza e quarta generazione, quelle a base di drospirenone. Che oltre a essere le più costose, sono anche le più discusse, perché accusate di aumentare il rischio di trombo-embolismo venoso (4 casi su 10 mila, invece di 2 casi su 10 mila per le pillole di seconda generazione)».
Pillole2

Nella classifica dei contraccettivi ormonali più venduti nel nostro Paese troviamo infatti ai primi tre posti le pillole a base di drospirenone, che da sole coprono oltre il 30 per cento del mercato, mentre nessuno degli altri prodotti raggiunge una quota del 10 per cento. In altri paesi, come la Francia, le proporzioni sono invertite: gli ultimi dati dell’Agenzia nazionale per la sicurezza dei farmaci (Ansm) dicono che le vendite delle pillole contraccettive di terza e quarta generazione hanno avuto un crollo verticale a partire dallo scorso dicembre e ormai rappresentano appena il 32 per cento del totale, rispetto al 68 per cento delle pillole più “vecchie” ma più sperimentate. Un calo determinato anche dalle decisioni del ministro della Salute transalpino, Marisol Touraine, che dopo le denunce di alcune ragazze che ritenevano di aver subito danni a causa dei contraccettivi di quarta generazione, ha stabilito che l’acquisto delle nuove pillole non è più rimborsato dal sistema sanitario francese. Ma il problema non si pone neppure nel nostro Paese perché tutte le pillole (tranne alcune molto vecchie) sono a carico della donna. Ovvio che questo esclude non solo intere fasce sociali, ma anche le ragazze più giovani sempre intente a far quadrare il minibilancio.
Pillole

AIUTO NEGATO, Ma senza un contraccettivo, il rischio di trovarsi incinta per caso c’è. E allora comincia il calvario. Un percorso a ostacoli alla ricerca di un aiuto. Come quello che potrebbe venire dalla contraccezione di emergenza, le cosiddette pillole del giorno dopo (o dei cinque giorni dopo), che pure dovrebbero essere disponibili senza difficoltà su prescrizione del medico. E invece no. L’ultima indagine su 300 strutture pubbliche (200 consultori e 100 pronto soccorso) su tutto il territorio nazionale, promossa dall’Osservatorio nazionale sulla salute della Donna (Onda) in collaborazione con Aidos, l’Associazione Italiana Donne per lo Sviluppo, mostra infatti come ottenere la “pillola dei cinque giorni dopo” (ulipristal acetato) sia una strada tutta in salita. Il perché è presto detto: il nostro Paese è l’unico al mondo, tra i 61 che hanno autorizzato la vendita del farmaco, a richiedere un test di gravidanza prima di concederne la prescrizione. Ebbene, dice l’indagine, il test è disponibile solo nel 20 per cento di consultori e Pronto soccorso. Nelle Regioni meridionali c’è il vuoto assoluto: solo l’11 per cento dei luoghi deputati alla prescrizione della contraccezione d’emergenza è in grado di effettuare i test di gravidanza rapidi. Così, al posto dell’ascolto, dell’accoglienza e della soluzione, le ragazze trovano rifiuti, porte chiuse, velati rimproveri e mille difficoltà disseminate lungo la strada.

«Il primo diritto negato è senza dubbio quello della contraccezione d’emergenza», spiega Emilio Arisi, ginecologo e presidente della Società Medica Italiana per la Contraccezione (Smic), nonché animatore del sito Mettiche.it su salute e contraccezione. Un sondaggio online condotto tra giugno e luglio di quest’anno tra le 3.500 utenti del sito (per lo più tra i 21 e i 25 anni) mostra come il 68 per cento delle donne che ne hanno avuto bisogno si siano inizialmente viste rifiutare il farmaco e come il 62 per cento sia stato costretto a una sorta di pellegrinaggio forzato tra gli ospedali per poterlo ottenere. «Nella nostra esperienza i medici, anche quelli dei Pronto Soccorso, fanno resistenza, temporeggiano, obiettano. E dirottano le giovani sui consultori, che però sono pochi e magari anche chiusi», spiega Arisi. Non solo: gran parte delle ragazze che ha risposto al questionario online non ha ricevuto indicazioni sulle strutture alle quali rivolgersi per ottenere la prescrizione. E il 70 per cento si è sentita giudicata.

Ma quel che molti ignorano è che tutto questo traccheggiare è fuori dalla legge. Giacché la normativa dice chiaramente che la pillola dei cinque giorni è un contraccettivo, e non un abortivo, così come stabilito anche dal Consiglio superiore di sanità. Eppure alle donne che la chiedono viene imposto l’obbligo del test di gravidanza per ottenere la prescrizione: un’anomalia tutta italiana che va eliminata, dicono i ginecologi. Infine, l’ultimo ostacolo: in Italia l’ulipristal acetato non è fornito dal Ssn, dunque a pagarlo è il cittadino (meglio, la cittadina). In altri paesi, come l’Inghilterra, è invece gratuito ed è distribuito senza la necessità di una prescrizione medica.

Ovvio che il farmaco sia così relegato in coda alle vendite dei contraccettivi: a sei mesi dal suo arrivo nelle farmacie ne erano state vendute appena 4.500 confezioni, contro le 13 mila vendute in Germania e a fronte di una domanda reale, secondo la Smic, almeno doppia.
Mappa contraccezione

ULTIMO DOLORE.
Sembra quindi un miracolo che, come indicano gli ultimi dati sull’interruzione volontaria di gravidanza contenuti nella relazione del ministro sull’attuazione della Legge 194, presentata al Parlamento nel settembre di quest’anno, il ricorso all’Ivg sia in calo. «Nell’82 si contavano 235 mila interventi l’anno, oggi 106 mila», commenta Angela Spinelli, del Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Istituto Superiore di Sanità. Ma a preoccupare sono soprattutto i tempi di attesa, estremamente variabili da regione a regione. Poche strutture, poco personale, il che costringe la donna a un’attesa difficilissima, sia dal punto di vista fisiologico che psicologico, aumentando i rischi per la loro salute e quelli professionali per i medici, che sono costretti, loro malgrado, a una cattiva pratica clinica. Il nodo dell’attesa è, con ogni evidenza, quello dell’obiezione di coscienza. Che tra i ginecologi è elevatissima: oltre due su tre si rifiutano di eseguire l’intervento. Infatti, a livello nazionale, si è passati dal 58,7 per cento di ginecologi obiettori del 2005, al 69,3 nel 2010 e nel 2011, con punte massime nelle regioni del Sud (Sicilia, Basilicata, Campania). Ma un’inchiesta della Laiga (Libera Associazione Italiana Ginecologi per l’Attuazione della legge 194) condotta sul Lazio documenta una situazione ben più grave, con il 91,3 per cento dei ginecologi ospedalieri obiettori di coscienza. Anche il dato tra gli anestesisti fa riflettere: in Val d’Aosta ricorre all’obiezione appena il 7,5 per cento, in Lombardia il 41,3 per cento, in Calabria il 72,8 per cento.
Bacio

Eppure le soluzioni per garantire alle donne un diritto sancito dalla Legge 194 ci sarebbero. A partire da una maggiore diffusione della RU486, il farmaco a base di mifepristone che viene utilizzato in associazione con le prostaglandine per l’induzione dell’aborto farmacologico. È disponibile in Italia dal 2009 e l’Oms lo considera il miglior metodo per effettuare l’interruzione di gravidanza entro i primi 63 giorni di gestazione. Eppure anche in questo caso la vita delle donne italiane è più difficile che altrove. L’Aifa infatti ne limita l’uso al 49esimo giorno di amenorrea, imponendo anche il ricovero (in media tre giorni di ospedalizzazione) dal momento della somministrazione del farmaco fino all’espulsione, cosa che invece non accade per l’aborto chirurgico. Ostacoli che le donne aggirano firmando per le dimissioni volontarie dall’ospedale (lo fa il 75 per cento di chi ricorre all’aborto con Ru486) e che danno un unico risultato: nel 2011 solo 7 mila donne hanno fatto ricorso a questo metodo, che è considerato invece efficace e sicuro dall’Oms. Un più ampio ricorso al metodo farmacologico - scrivono in una lettera aperta al ministro Lorenzin i ginecologi di Laiga, con l’Associazione Luca Coscioni e con l’Aied - permetterebbe di ridurre i tempi di attesa, riducendo i rischi di complicazioni. E d’altra parte, in tempi di crisi, questo garantirebbe una contrazione della spesa sanitaria. E le risorse potrebbero essere utilizzate invece nella prevenzione delle gravidanze indesiderate, attraverso il potenziamento della rete dei consultori familiari, una migliore diffusione dell’uso dei contraccettivi e della contraccezione di emergenza.

Non accade. Non ci sono i soldi. Che però si trovano per finanziare i Centri di aiuto per la vita, gestiti da associazioni ultra cattoliche in prima fila contro la Ru486 e ogni forma di interruzione di gravidanza indesiderata. Dal 2010 l’ex governatore lombardo Roberto Formigoni ne ha fatto una bandiera e non se ne è dimenticato neppure quando è stato disarcionato dalla guida del Pirellone: un anno fa, a giunta già dimissionaria, nell’ultima raffica di delibere prima del ritiro ecco spuntati altri 5 milioni di euro. Il conto totale supera così i 19 milioni a sostenere i 90 Centri lombardi; 338 in tutta Italia.
Contraccezione ormonale

IL PAPA E IL CONDOM.
Già, i consultori. In occasione dei 60 anni dell’Aied, il ministro Lorenzin ha detto che questi presidi territoriali svolgono un ruolo fondamentale nell’assistenza di donne e famiglie nel complesso settore della salute riproduttiva e rappresentano un partner importante del Servizio sanitario nazionale. Peccato che siano praticamente una specie in via di estinzione. «Una rete consultoriale ottimale dovrebbe prevedere un centro ogni 20 mila abitanti. In Lombardia ce n’è uno ogni 50 mila», dice Nicola Surico, past president della Società Italiana di Ginecologia e Ostetricia. E così accade nella maggior parte delle regioni. Non soltanto sono pochi (poco più di 2 mila in tutta Italia, circa il 30 per cento in meno di quanto necessario), sono anche sguarniti di personale: solamente nel 4 per cento dei casi operano tutte e otto le figure professionali previste, e molti sono sulla via della pensione. Così accade che spesso non riescano ad assolvere a tutti i loro compiti. Per esempio quello di fare prevenzione con corsi di educazione sessuale.

«In Italia si verificano ancora 9 mila maternità in ragazze di età inferiore ai 19 anni, un numero altissimo sebbene in calo negli anni», commenta Surico. È evidente che c’è un problema di conoscenza che andrebbe affrontato di petto sin dai primi anni di scuola. «Noi», continua il ginecologo, «ci siamo sempre battuti per l’inserimento dell’educazione sessuale nei programmi, ma è evidente che viviamo in un Paese dove coesistono due Stati. Uno è il Vaticano. E lo dico da cattolico». E tuttavia la rivoluzione soft del nuovo papa fa ben sperare: lo stesso Surico è stato chiamato a far parte di una Commissione per lavorare insieme alle gerarchie ecclesiastiche sullo sdoganamento del profilattico.

Donne, salute, contraccezione. L'Espresso continua a raccogliere le testimonianze dei lettori. Raccontate la vostra esperienza a espressonline@espressoedit.it