La stella sul petto? Macché, io ce l’ho stampata in fronte. Lo chieda in giro qual è la fissazione dell’assessore Aldo Milone. Glielo diranno tutti: chille sta pazz’ per i cinesi!». Viene da Sarno ed è fiero del suo accento napoletano. Ha la faccia scavata del poliziotto. Fuma in ufficio. Ha lavorato al Sisde, ai tempi del sequestro Dozier. Ma adesso che è un politico, beh, in qualche modo è stato promosso. A “sceriffo”. Perché dal 1995 Aldo Milone ha un solo, maledetto, chiodo fisso: «Anche lei è venuto per la fabbrica cinese bruciata? Tragico, ma se vuole sapere la verità, le dico che siamo fortunati. Poteva succedere molto peggio». Poi guarda fuori dalla finestra: «La vede quell’auto? È un taxi cinese abusivo. E quelle palazzine? Ci vivono anche venti persone in 50 metri quadrati. Poi ci sono i ristoranti, il lavoro nero, la prostituzione, la chetamina. Qui è tutto abusivo, tutto criminale...».
[[ge:rep-locali:espresso:285113846]]Fotografie di Giovanni Cocco per l'Espresso
Il comando della polizia municipale è un cubo di cemento armato. Sta a due passi dalla Chinatown di Prato. Grigio e diroccato come i “Pronto moda” dove si cuciono diecimila pantaloni in una notte, per un euro l’uno. Alcune auto stanno in divieto di sosta proprio sotto il comando. Ma lo sceriffo non ci bada troppo. E fa segno di passare avanti. «Lo dico sempre», sospira. «È giusto fare le multe, anche il parcheggio è una legge. Ma i miei 190 agenti devono avere la testa dei poliziotti. È il crimine del quartiere cinese che va smantellato. Il resto viene dopo». Già. Una parola. Perché la sua mentalità matematica, quella del poliziotto, quella dell’uno più uno che fa due, qui si scontra con le millenarie illusioni del dragone. Milone sequestra, denuncia, arresta. E i cinesi svaniscono, cambiano nome e poi riappaiono con un nuovo negozio. Lui sigilla. Loro entrano. Lui pedina. Loro scompaiono dall’Anagrafe. Morale: nell’ultimo anno e mezzo ha sequestrato 1.200 aziende. Fanno decine di migliaia di “taglia e cuci” per confezionare la robaccia poi venduta come “Made in Italy”. E i cinesi, in tutta risposta, ne hanno aperte 2.000. Le “taglia e cuci” sono più di 3.700. I clienti raddoppiati. Come i milioni in contanti che circolano per Prato.
Tutto comincia nel ’95, quando la Repubblica popolare cinese è guidata da Jiang Zemin e il Partito popolare italiano da Rocco Buttiglione. Milone si candida alle elezioni e passa alla grande. Poi va dal sindaco: «Me la dai la delega ai cinesi, no?», chiede. «No», fa l’altro. Troppo di destra. Troppo fissato. Si dovrà arrivare al 2009, quando i cinesi ormai sono decuplicati, perché qualcuno gli dica di sì. E poi, alle ultime elezioni, il suo 2,7 per cento basta per spodestare la rossa Prato dopo cinquant’anni e far trionfare il centrodestra di Roberto Cenni. Da quel momento la vita di Milone è un blitz. L’ultimo risale a lunedì. Si sono presentati in una fabbrica-dormitorio, proprio come quella andata a fuoco. Lui le chiama «laboratori-lager». Ci vivono stipate decine di persone, giovani, donne e bambini. Lavorano diciotto ore, mangiano riso e dormono tre ore e mezzo per notte. A svegliarli di buon’ora ci pensano i topi che corrono sui materassi. Ammassate in un angolo, le bombole del gas sono legate con lo spago. In terra avanzi di cibo, macchie d’olio e puzza. Una vigilessa quasi s’è sentita male, ma per la piccola comunità cinese tutto questo è normale. Vengono dalle zone più povere della provincia del Fujian e dello Zhejiang. «Se lo immagina uno sfratto in Italia? Per spostare una persona succede una tragedia. Vengono i parenti e pure i vicini. E poi pianti, discussioni....», racconta. Nulla di tutto questo nella Chinatown di Prato. Il capetto di turno prende il cellulare, fa un paio di telefonate e, in pochi minuti, tutti sono sistemati altrove. Nessuno sa dove vanno. «Da domani questi lavorano in un’altra fabbrica, magari con un nome diverso. E chi s’è visto s’è visto», taglia corto Milone. E siamo a tre sopralluoghi al giorno.
Le foto dei morti di via Toscana stanno appese sul portone di quella scatola di ferro e cemento, trasformata in una trappola di fuoco. In terra decine di lumini, fiori, e ancora lumini. Ma la verità è che la tragedia di Prato non ha sconvolto la vita di questa piccola Hong Kong sul Bisenzio. Qui anche i gatti sanno cosa succede, eppure nessuno è capace di fare nulla. Nemmeno dopo che c’è scappato il morto: «C’era il lutto cittadino e un minuto di silenzio... sa quanti cinesi l’hanno fatto? Nessuno. Lavoravano tutti, anche al Macroblocco, dove è bruciata la fabbrica... Qui c’è solo un dio: il dio denaro».
Quello che lo manda in bestia, poi, sono le facce sorridenti che gli fanno. È povera gente, viene da dire: «No, no... lo sa perché ridono? Perché pensano: ma guarda ’sti fessi, che credono di fare. E hanno ragione loro». Lo sa bene, lo sceriffo. Gli è successo centinaia di volte. Arrivano i vigili, mettono i sigilli e tre ore dopo i macchinari sequestrati sono spariti. «Tornano di notte e caricano tutto sui camion. Poi li vendono a qualche amico». Ma non a Milone, lui ha avuto una delle sue idee: «Ci portiamo al comando le schede elettroniche dei macchinari. Così se anche le portano via, al massimo sono ferri vecchi», dice fiero.
Un altro taxi abusivo aspetta. L’autista non ha espressione. Si mette fuori, in piedi, al freddo. I clienti vengono dall’Italia, dalla Spagna, dalla Francia, dal Sudamerica. Pagano cash. E non si sognerebbero mai di prendere un taxi vero. Con 5 euro ti giri la città, con 15 ti portano all’aeroporto di Firenze e ritorno. Ma il problema non sono i soldi: il problema è la protezione della comunità cinese di Prato, dove le leggi se le fanno da soli. Basta fare un conto a spanne. Se i taxi cinesi sono duecento, contro i 32 del servizio comunale, significa che la Prato abusiva, con 40 mila cinesi fra regolari e non, ha un giro d’affari tre volte più grande di quella legale, con quasi 200 mila italiani. «Ogni tanto ne sequestriamo uno, il giorno dopo lo stesso autista ne guida un altro con documenti diversi. C’è da uscirne pazzi. Qui è così, da vent’anni. E lo Stato non fa nulla, la Regione nemmeno, nessuno fa nulla. Qui parlano di integrazione...».
Del resto è la sua guerra, Milone contro tutti. E lo sa pure la magistratura, visto che nelle intercettazioni, i cinesi parlano spesso di lui: «Milone di qua, Milone di là». Fino alle minacce e alla scorta armata. E così, negli anni, s’è convinto che, dietro a quella comunità, lavori una vera e propria organizzazione criminale. Qualcosa di simile alla mafia cinese dei film, ripete, dove la gente sparisce nel nulla. A sentirla da lui, è una storia di furie e di draghi. Ma prove, beh, prove zero. Dice che la cupola usa un ristorante come copertura, a ridosso della via principale. E dice che c’è un capo, un tipo basso e grassottello, che tutti chiamano “il sindachino”. Poi ci sono le bande criminali, che si combattono all’insaputa della polizia. Roba da “Grosso guaio a Chinatown”. Nella sua storia ci sono pure le “tre bufere”, i capi dei clan della Chinatown pratese, una specie di Triade locale: «A Prato ci sono i sequestri lampo, che nemmeno a Napoli... li fanno». Scorre i verbali degli agenti di ronda. Le chiama “volanti” come quelle della polizia. Durante un giro, un paio di vigili vedono qualcosa di strano in un negozio cinese. Un uomo in piedi punta qualcosa contro un altro. Un secondo gli tiene il telefono all’orecchio: «Sono le bande di Fujiang. Uno va a casa dai parenti, l’altro in negozio armato. Pretendono soldi, oppure si portano via la moglie, o il figlio». Storie di cui nessuno sa, né saprai mai nulla. Perché a Prato i cinesi non nascono, non muoiono e soprattutto non denunciano nulla alla Procura. E se ti avvicini, spariscono nel nulla. Già, da tempo tiene pure i conti dei cinesi morti a Prato. E non tornano proprio. Una notte hanno trovato tre cadaveri abbandonati su un marciapiede, come sacchi di spazzatura. Gente morta nelle fabbriche abusive, di cui ci si voleva liberare. Niente documenti. Niente nomi. Pochi giorni fa un contadino ha rinvenuto i resti di un corpo seppellito in un campo: «Le morti ufficiali ci sono solo per incidente stradale o a seguito di ricovero in ospedale», spiega Milone. «Situazioni monitorate, da cui non possono sfuggire. Per il resto non muore mai nessuno». I ricchi perché sono ricchi, i poveri perché non esistono.
L’altro cruccio dello sceriffo è il giro delle patenti. Il boom è arrivato quando Bobo Maroni faceva il ministro dell’Interno a colpi di slogan. Con la storia dell’esame di italiano, per essere bravi leghisti, ha finito per aiutare i delinquenti. Perché per i cinesi è stato più difficile prendere la patente, e così s’è data la solita mano ai criminali. «Senta questa: fermiamo due soggetti in auto e cosa ci troviamo? Quattro patenti, con foto identiche e generalità differenti». Gli agenti indagano e scoprono che a Taranto c’è stato un grosso furto alla Motorizzazione. «Vede la teoria dell’uno più uno: Le patenti dei cinesi venivano da Taranto. Ascolti un vecchio poliziotto: non sono coicidenze. Qui c’è un’organizzazione che ha collegamenti con il crimine italiano».
Intanto, fuori dal suo ufficio al terzo piano c’è la coda come dal medico della mutua. Ha fatto aggiungere sedie, perché non ci stava più la gente. «A Prato non vanno in questura, vengono da me», dice fiero. Ed è così che ha scoperto anche l’ultimo allarme: le banche. Oltre 200 milioni di mutui ai cinesi. A fronte, giura Milone, di garanzie ridicole. Cordate di anonimi con redditi da 5 mila euro l’anno, che si portano a casa i soldi dalla banca: «Poi ci vanno gli italiani e li spediscono giù dalle scale. Io ho fatto un esposto a Bankitalia: 25 casi, con tanto di documentazione. Nessuna risposta da Roma. E poi fanno chiudere le aziende italiane per 20 mila euro». Morale, lui non si fida più. Di nessuno. «Un paio d’anni fa i cinesi hanno organizzato una cena con le autorità: prefetto, questore, sindaco. Io non ci sono andato. Gran menù, mille inchini», racconta lo sceriffo. Poi, sette giorni dopo, i suoi agenti fanno un blitz al ristorante: «Non le dico cosa c’era là dentro. Chiesi loro: “Eccellenze, ma avete mangiato davvero lì?».
E così, ogni volta che fa il giro della Chinatown con la sua voltante, punta il dito fuori dal finestrino a ogni metro. Conta le insegne con le scritte in cinese. «Ho obbligato io a tradurle anche in italiano, altrimenti qui non si capiva nemmeno cosa c’era nei negozi». Conta gli studi di commercialisti. «Questi li aiutano a frodare il fisco». Solo l’anno scorso 326 aziende sono state chiuse prima dei diciotto mesi di attività. Cioè prima dei controlli dell’Agenzia delle Entrate. Aprono, lavorano qualche mese e chiudono. «Vuol dire che le fanno solo per truffare lo Stato. Qui si mangiano un miliardo l’anno di tasse». Poi si volta di scatto. Ancora quei taxi abusivi. Ancora quelle scritte sui muri. Sono migliaia. Le ha perfino sognate. «Le cancelliamo e la sera stessa ci sono di nuovo: prostitute, massaggi, affitti in nero... Creda a me, qui lo Stato conosce l’uno per cento di quello che succede. L’uno per cento, a stare larghi...».