Questa politica è ancora piena di tabù

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A guardare il dibattito di questi giorni,  sembra che su tanti temi (dalle coppie di fatto al biotestamento, fino alle adozioni gay) i partiti siano molto più indietro dei cittadini

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Mircea Eliade, autore indispensabile che leggo come bussola per orientarmi nella modernità, scrive: «Sono o diventano tabù, parola polinesiana adottata dagli etnografi, tutti gli oggetti, azioni o persone che recano una forza di natura più o meno incerta».

La funzione del tabù è quella di difendere la comunità da azioni che potrebbero arrecare danno ai suoi membri o da ciò che non si conosce e che quindi genera ansia. Oggi, una società basata su un numero elevato di tabù può dirci diverse cose: che è una società arretrata o che i tabù vengono mantenuti a vantaggio di un esiguo gruppo di persone, che deve la sua sopravvivenza alla sopravvivenza di quei divieti. Alcune comunità vietano ancora le unioni tra etnie diverse, altre l'assunzione di determinati cibi, altre hanno regole rigide sull'abbigliamento e altre ancora sulle "libertà" concesse alle donne. Pur nel rispetto delle diversità, a volte tendiamo a considerare determinati tabù anacronistici e, le società che ancora li osservano, arretrate rispetto alla nostra.

Ciò che mi domando, quindi, è cosa legittimamente deve pensare di noi chi ci osserva a distanza e vede un Paese nel quale non è possibile avviare dibattiti politici su temi vitali come le coppie di fatto, le unioni e le adozioni gay, il fine vita. Per non parlare delle condizioni delle carceri e della legalizzazione delle droghe. Ecco i nostri tabù, che a superarli ci sarebbe forse davvero quel baratro di cui parlava il Cardinal Bagnasco.

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