Ceccanti: «Abbiamo pagato scelte identitarie sbagliate». Gozi: «Non abbiamo saputo fare la campagna elettorale». Concia: «Dovevamo andare più nelle piazze e tra la gente». L'amara nottata dei dirigenti del centrosinistra

Otto punti in meno rispetto al risultato, contestatissimo, di Walter Veltroni di cinque anni fa. Il Partito Democratico, allora guidato dall'ex sindaco di Roma si attestò al 33 per cento circa, oggi quello guidato da Pier Luigi Bersani supera a malapena al 25. Non solo; la coalizione di “Italia Bene Comune” non arriva neanche al 30 per cento alla Camera. Un risultato mediocre, reso ancora più modesto dall'emorragia di voti del centrodestra che, rispetto al 2008, perde circa 18 punti, passando dal 47 al 29 per cento.

Ma, prescindendo dai numeri, il dato politico è che ancora una volta, come nel 2006, nel momento in cui la vittoria sembra a portata di mano, inevitabile, ad un passo, la sinistra italiana non l'afferra. 

Era teso il clima ieri all'Acquario Romano, dove il Pd si è dato appuntamento per commentare insieme ai giornalisti la giornata elettorale. La giornata della festa molto annunciata, tanto attesa, ma in realtà mai arrivata. 

Dopo i primi exit poll, che ancora una volta hanno clamorosamente fallito, c'era un clima disteso, molti sorrisi, moltissima disponibilità con la stampa. Poi, con le prime proiezioni del Senato, che hanno subito reso chiaro che la vittoria del centrosinistra si era trasformata in una chimera, è sceso il gelo nel quartier generale dei democratici. 

Il nome sulla bocca di tutti, ma sui cui nessuno si sente di infierire, ovviamente, è quello di Pier Luigi Bersani. Il suo Pd, davanti alla partita che vale una vita, riesce a fare peggio di quanto fece quello convalescente di Dario Franceschini alle Europee del 2009 (26 per cento). Le reazioni? Prudenti, preoccupate, incerte. Ci va piano perfino un ex rottamatore come Pippo Civati, spesso un contestatore della linea della segreteria: «Ovviamente, speravo in un risultato migliore», ammette, ma non se la sente di trovare colpevoli in questa convulsa notte elettorale: «Prima di parlare bisogna riflettere e pensare al bene del paese prima che a noi stessi. La nostra prospettiva di governo è messa in discussione, ora bisogna pensare all'Italia e poi al partito. Comunque dovremo riflettere anche su quello che abbiamo fatto». 

Spiega Stefano Ceccanti, senatore uscente del Partito Democratico: «Il problema del Pd è che ha deciso di dare un messaggio iper tradizionale e identitario, perdendo gli altri voti. Avevamo la prateria dei voti degli indecisi avanti a noi e invece ci siamo chiusi a sinistra, precludendoci la prateria a destra. Ci siamo ristretti in un'orgoglio identitario e abbiamo pagato questa scelta. Comunque, per ora mi preoccuperei di mettere in piedi un governo». Ma è un'impresa possibile? «Deve essere possibile. Un governo va fatto. Non è solo un problema di legge elettorale. Bisognerebbe fare delle riforme strutturali, costituzionali».

Molto amareggiata è Paola Concia: candidata in terza posizione al Senato in Abruzzo, non tornerà in Parlamento. Infatti, la coalizione di centrosinistra è arrivata terza nella terra che nel 2009 è stata devastata dal terremoto.

La sua analisi è amara: «Io ho fatto una campagna elettorale in mezzo alla gente, forse tutto il partito avrebbe dovuto fare così. E invece non è stato fatto. Quando andavo nei mercati dei paesini della Marsica a me chiedevano le persone i volantini li venivano a chiedere, non li consegnavo io», dice. L'ex parlamentare non concorda con chi parla comunque di una 'vittoria' per i democratici. «Mi pare che non abbiamo vinto. Siccome c'è un gruppo dirigente ristretto che ha deciso la campagna elettorale, se la prendessero loro la responsabilità di dire che abbiamo vinto. Non io. Stavo per essere fatta fuori, e infatti mi hanno messo al numero tre in lista, e infatti mi hanno fatto fuori».  Chi sembra avercela fatta a rientrare in Parlamento, invece, è Sandro Gozi, altro deputato pd che spesso ha chiesto un rinnovamento della classe dirigente. Ma anche lui non nasconde la sua delusione: «La destra non sa governare ma sa fare campagna elettorale. Noi sappiamo governare, ma non sappiamo fare le campagne elettorali. Dovevamo essere dovevamo essere più incisivi nel descrivere il nostro programma di verità e serietà. Inoltre è chiaro che non abbiamo saputo interpretare il disperato bisogno di cambiamento che c'è nei cittadini. In un paese normale avremmo dovuto essere travolgenti. Negli ultimi giorni Grillo ha rubato molti consensi anche a noi». Gozi, comunque torna sul tema del rinnovamento: «La percezione collettiva è che il gruppo dirigente andava rinnovato di più. E poi non abbiamo convinto gli italiani che con noi c'era la discontinuità. Dimissioni di Bersani? Presto per parlarne Dobbiamo prima pensare al Paese. Le vicende del partito le discuteremo dopo». 

Anche gli alleati del Pd, quelli di Sinistra Ecologia e Libertà, reagiscono con amarezza. Del resto il loro 3 e briciole per cento non autorizza nessun entusiasmo, benché sia stato fondamentale per garantire alla coalizione il premio di maggioranza alla Camera: senza di loro, lo avrebbe preso Grillo. E Gennaro Migliore, dirigente di SeL, dice che il centrosinistra ora deve aprire un dialogo proprio con il MoVimento 5 stelle: «Il loro dato elettorale è evidente, hanno avuto un'affermazione straordinaria. Dobbiamo smettere di avere un atteggiamento di supponenza verso di loro, molte cose del loro programma fanno parte del mio, è giusto partire da queste proposte comuni».

Non manca, da parte di Migliore, un'analisi di ciò che non è andato bene: «Senza di noi sarebbe stato tutto più difficile per il Pd. Bisognava essere più netti rispetto alla proposta politica. Quello del rapporto con Monti era un falso problema, io non ho mai creduto che avrebbe potuto essere un interlocutore, su questo bisognava essere più netti. Non voglio entrare in polemiche, ma l'anno di politiche rigoriste di rigoriste del governo Monti ha contato. Se fossimo andati a votare un anno fa il risultato sarebbe stato molto diverso».