Hanno preso la banca più antica del mondo e l'hanno ridotta in macerie. Resta da capire se lo hanno fatto più per avidità o per incapacità. E se dietro di loro ci sono dei mandanti

La vittima è ancora lì, sotto choc: il Monte dei Paschi di Siena, la più antica banca del mondo. È stata ritrovata l'arma del delitto: una serie di contratti segreti, che hanno avuto due effetti. Il primo, avvelenare i bilanci dell'istituto; il secondo, ingannare le autorità di controllo. Sono noti i nomi dei sospetti esecutori: i manager che hanno gestito la banca fino a un anno fa, in primo luogo l'ex presidente Giuseppe Mussari.

Se il caso Monte Paschi fosse un thriller di John Grisham, i primi capitoli sarebbero già scritti. Per arrivare all'epilogo, però, la trama dovrebbe rispondere ai due interrogativi che si stanno ponendo anche gli investigatori in carne e ossa, i magistrati della Procura di Siena e gli uomini della Guardia di Finanza. Qual è il movente? I primi indizi suggeriscono che alcuni manager fossero soliti intascare la cresta su transazioni finanziarie dannose per la banca. Hanno già un nomignolo, la "banda del 5 per cento". E se davvero rubavano, bisogna vedere se godevano pure di coperture interne. Sul piano dei moventi della crisi generale della banca, è però scontato che ci sia un altro fattore fortissimo: la fame di potere. Governare il Monte significava avere in pugno la città di Siena e intrattenere relazioni con i grandi d'Italia. E magari, come si racconta di Mussari, puntare a una poltrona da ministro.

Dalla risposta alla prima domanda, cruciale in ogni romanzo poliziesco, dipenderà anche la seconda questione. Se esiste o meno un mandante. Se i bilanci sono stati abbelliti soltanto per permettere ai manager di restare in sella, a dispetto di capacità gestionali che non sono mai sembrate all'altezza della situazione. Oppure se, in realtà, qualche tangente è finita nelle tasche di uno o più dei politici che bussavano al portone di Rocca Salimbeni, la storica sede nel cuore medievale di Siena, dalla facciata falso-gotica costruita in realtà a fine Ottocento. Un'ipotesi che, a meno di una svolta improvvisa nelle indagini, oggi sembra ancora lontana da poter essere verificata.

LA RIUNIONE DEI MISTERI. Non si può comprendere lo sviluppo dei fatti se non si torna al momento in cui tutto ha origine. Secondo quanto ha appreso "l'Espresso", gli investigatori stanno concentrando la loro attenzione su una riunione - presenti Mussari e altri dirigenti - avvenuta nei giorni precedenti l'8 novembre 2007, quando il Monte annuncia l'acquisto della storica banca padovana Antonveneta.
Il prezzo è da capogiro: 9 miliardi cash. Una cifra già di per sé superiore rispetto ai 6,6 miliardi che il venditore - lo spagnolo Banco Santander - ha sborsato solo pochi mesi prima per conquistarla. E ancora più elevata se si considera che, al momento di passare effettivamente in mano ai senesi, ad Antonveneta verrà sottratta Interbanca, una merchant bank che gli spagnoli vendono separatamente. Nella loro ricostruzione i pm ritengono che, alla fine della riunione decisiva, i vertici del Monte abbiano messo nero su bianco un prezzo molto più alto di quanto previsto inizialmente. E vogliono capirne i motivi. Anche perché, alla fine, le risorse che Mussari sarà costretto a impegnare saranno ancora più ingenti.

QUEI BONIFICI DA 17 MILIARDI. Come ha rivelato "l'Espresso" lo scorso 7 dicembre, quando il contratto con il venditore diventa definitivo da Siena partono bonifici per 17 miliardi in direzione di varie entità del gruppo Santander. Il motivo è legato in piccola parte al fatto che il Monte accetta subito di pagare agli spagnoli gli interessi sui 9 miliardi pattuiti, fino a quando non arriverà l'autorizzazione della Banca d'Italia all'acquisto di Antonveneta. Alla fine, solo il conto ufficiale di questa voce sarà di 230 milioni.
In misura più consistente, l'aumento dell'impegno finanziario è legato al fatto che il Monte accoglie in seguito anche la richiesta di restituire agli spagnoli finanziamenti concessi ad Antonveneta per ulteriori 7,5 miliardi. In questo enorme fiume di denaro, alcuni dettagli meriterebbero spiegazioni che finora non sono state fornite. Il primo bonifico del Monte, ad esempio, è superiore di 37 milioni rispetto ai 9,23 miliardi che si ottengono sommando prezzo base e interessi. E ancora: 2,62 miliardi finiscono a una filiale londinese del Santander mai emersa in precedenza, la Abbey National Treasury Service. Da lì, gli investigatori ritengono che una parte sia transitata in paradisi offshore. E sono questi i movimenti che cercheranno di tracciare, per capire a chi sono effettivamente andati. Al momento, però, la pista seguita dagli uomini guidati dal pm Antonino Nastasi riguarda altri aspetti. E si concentra su un documento, considerato la chiave dell'accusa di avere ingannato gli organi di vigilanza e il mercato. Una contestazione che, se provata, può costare fino a 12 anni di carcere.

L'ARMA DEL DELITTO. Si tratta di una "lettera di indennizzo", firmata il 15 aprile 2008 in favore della banca americana Jp Morgan Securities e legata a un prestito da un miliardo lanciato dal Monte per finanziare il blitz su Antonveneta. Con una sintesi brutale, il senso è il seguente: quel prestito, convertibile in azioni a determinate condizioni e battezzato Fresh, con la lettera d'indennizzo firmata dal Monte cambiava le sue caratteristiche. Il Monte si impegnava infatti a rimborsare a JP Morgan eventuali perdite, mantenendo a proprio carico i rischi.
La questione, per la Banca d'Italia, è di grande rilievo. Ogni istituto di credito, per poter operare, deve avere un pre-determinato patrimonio, necessario per onorare gli impegni con i clienti. Senza lettera, il miliardo del Fresh passava per patrimonio nella disponibilità del Monte. Con la lettera, no. Quando la procura gliela ha girata, gli ispettori del governatore Ignazio Visco hanno chiesto al nuovo management se qualcuno aveva usufruito delle garanzie concordate con JP Morgan. La risposta è stata sì: il contrario delle rassicurazioni fornite in precedenza dai vecchi dirigenti, in particolare con una missiva inviata il 16 ottobre 2008. Così, un mese fa, la Banca d'Italia ha recapitato agli amministratori dell'epoca una serie di contestazioni. Il tono è tecnico, tagliente come una lama. «Egregi Signori, durante le recenti perquisizioni la Procura ha rinvenuto un documento che il Monte Paschi non aveva mai portato a conoscenza o trasmesso a questo istituto», recitano le prime righe.

A CACCIA DI COPERTURE. A Siena chi lo conosce racconta che Mussari, 50 anni, da studente abitava in un appartamento interno alla sezione Aldo Borri del Pci cittadino. Il partito domina la politica locale e lui cavalca l'onda diventando, in epoca Ds, presidente della Fondazione Mps, che controlla la banca e ne distribuisce sul territorio i ricchi dividendi. Un mare di finanziamenti che ha certamente contribuito a lustrare Siena a lucido. Ma che ha sclerotizzato il sistema di potere che gravita attorno al Pd, al suo esponenente di spicco in città, l'ex sindaco (ricandidato alle prossime elezioni) Franco Ceccuzzi. Mussari, però, non è tipo da rimanere fermo e cerca di coprirsi su ogni fronte. Stringe un'alleanza di ferro con il suocero di Pier Ferdinando Casini, Francesco Gaetano Caltagirone, che porta nel consiglio della banca, dove lui stesso nel 2006 si auto-promuove da azionista a presidente.

Caltagirone è anche uno degli imprenditori che ha scambi importanti con il Monte di Mussari, anche se non è il solo. Perché la banca sostiene - tra gli altri - giornali locali vicini alla massoneria, il gruppo Marcegaglia, il costruttore Riccardo Fusi, super-indebitato e legatissimo al coordinatore del Pdl, Denis Verdini. Nel 2011, quando Giuseppe Rotelli - re degli ospedali privati lombardi e grande azionista del "Corriere della Sera" - fa la sua prima offerta di 250 milioni per rilevare il San Raffaele di Milano, il Monte è in prima fila per assisterlo. Il consiglio di amministrazione approva infatti una delibera per garantire l'intera cifra con una fideiussione. Un impegno non da poco ma che i dirigenti approvano per paura che Rotelli - recita il documento - «possa trasferire presso la concorrenza le disponibilità attualmente in essere presso di noi». Tanti soldi: il «saldo creditore» è pari a 135 milioni.

Lo scambio politico più fitto è però quello con l'ex ministro Giulio Tremonti. Mussari - che diventa anche presidente della lobby delle banche, l'Abi - supporta tutte le iniziative della Cassa Depositi e Prestiti, che Tremonti trasforma nel suo braccio armato. Nel novembre 2008, il colpo grosso: nel decreto anti-crisi seguito al crack della Lehman Brothers l'alleato ministro, in cambio di un'aliquota fiscale leggermente inasprita, rende più rapidamente deducibili una serie di ammortamenti, permettendo alle banche di rimpinguare i profitti.

L'ATTACCO DEI CRITICI. Le coperture non risparmiano però Mussari dal malcontento interno. Chi sa leggere i bilanci, si preoccupa. Lo mostrano i verbali dei consigli di amministrazione. Ecco qualche esempio. Nell'aprile 2011 Caltagirone usa parole dure nei confronti del nuovo piano industriale: «Per non avere delusioni, ne è preferibile uno meno ambizioso ma realizzabile, specie sotto il profilo della redditività», dice. Nell'autunno successivo, poi, per diverse sedute gli attacchi si concentrano sulla gestione finanziaria del portafoglio di 39 miliardi di titoli, 32 dei quali in Btp. Alberto Monaci, all'epoca nell'area cattolica del Pd, ora candidato con la Lista Monti, in precedenza già critico su alcune operazioni nel comparto immobiliare, bolla le iniziative prospettate per far fronte alle perdite definendole «di peso marginale». E Frédéric De Courtois, che rappresenta l'alleato francese Axa, affonda il coltello: boccia la presentazione predisposta dai dirigenti, chiede «un'esposizione titolo per titolo» e di conoscere «per tutti gli investimenti finanziari, incluse posizioni in azioni o hedge fund, gli aspetti economici e i potenziali effetti in termini di liquidità». Quando nella riunione successiva questo viene fatto, De Courtois è lapidario: «Ci sono pochi titoli liquidabili».

L'UOMO DELLO SCUDO. A difendere l'operato della banca c'era, in quelle occasioni, l'allora responsabile dell'area finanza, Gianluca Baldassarri, che dopo aver lavorato sotto tre direttori generali è stato allontanato dal nuovo capo azienda, Fabrizio Viola. A chi lo conosce Baldassarri ha sempre spiegato che gli acquisti di Btp erano stati esaminati dal consiglio in ben quattro riunioni. E che al momento della sua uscita Mussari gli ha scritto una lettera di ringraziamento. Gli inquirenti, però, ritengono che a Baldassarri sarebbe riconducibile un tesoretto di fondi esteri di vari milioni, rimpatriato con lo scudo fiscale. E vogliono capire se è questa la strada per scoprire perché il Monte è stato avvelenato. E chi sono i responsabili.

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