«Sensi», mi disse una volta in terza liceo la mia insegnante di latino, «il suo è il sorriso di Franti».
Era prima della 'discesa in campo' di Berlusconi, prima di Bossi ministro, prima di Calderoli ministro, prima di Borghezio sottosegretario (sì, è successo anche questo nel nostro Paese), ma già qualche docente, nella mia scuola piemontese, arrivava la mattina con l'auto tappezzata di gagliardetti e adesivi della Lega Nord. «Lei è fortunato, non ha bisogno di farsi le lampade», mi diceva un altro prof, incrociandomi nei corridoi, «lei è calabrese». Un altro, nella cui materia non eccellevo: «Il francese non è per lei, voi calabresi siete portati per lingue più fredde, come l'inglese». Ma l'insegnante di latino no, non era tra questi: «Il suo è il sorriso di Franti», ripeteva. E io, che l'elogio di Franti di Umberto Eco ancora non lo avevo letto, non capivo perché, nel dirlo, mi sorridesse complice.
Di lì a un paio d'anni mi trasferii nel liceo di una piccola città vicina. «Dobbiamo stare attenti a questi negri che ci portano l'Ebola» sono state, un giorno, le parole dell'insegnante che mi aveva accolto nella mia nuova classe: lì gli adesivi della Lega stavano anche dentro la scuola, in aula, sui banchi.
Quell'estate arrivò il diploma e, con esso, Maupassant, Hugo, Sartre e tutta una letteratura che mi si avevano insegnato a detestare. Arrivarono i muratori maghrebini, che quando pioveva non c'era lavoro e allora se ne stavano nel bar della stazione a raccontarmi del colonialismo francese in nord Africa. Arrivò un amico albanese, che ce n'eravamo andati al mare e al ritorno fummo fermati dalla polizia ferroviaria e lui venne espulso. Quello stesso anno, divenni un 'giovane comunista', cioè entrai in Rifondazione.
Più di un decennio da allora è passato e 'giovane comunista' non lo sono più. La vicenda dell'insegnante di latino m'è tornata alla mente l'altra sera, durante un incontro pubblico con Antonio Ingroia, di passaggio qui ad Asti, dove abito, per sostenere la candidatura al Senato dell'assessore alla Legalità e alla Trasparenza della locale giunta di centrosinistra: uno che, fino al 2002, sedeva in Consiglio comunale come capogruppo di Forza Italia.
Sentivo di doverglielo chiedere, ad Antonio Ingroia, se, proprio lui che ama definire «il berlusconismo un grave fenomeno che ha guastato il modo di pensare degli italiani, compreso il modo di pensare della sinistra italiana», non provasse un po' di imbarazzo a spendersi per quella candidatura, evidentemente imposta da uno di quei partiti ai quali, il giorno della sua investitura a leader di Rivoluzione Civile, aveva chiesto di fare un passo indietro.
Sentivo di doverglielo chiedere, e gliel'ho chiesto, nella piccola sala di teatro in centro città nella quale Ingroia avrebbe «incontrato la cittadinanza» e al cui ingresso sono subito stato accolto da un vecchio compagno di sezione, dipendente Telecom da quando la Telecom ancora si chiamava Sip, che mi è venuto incontro staccandosi da un gruppo di militanti lì in attesa. Una stretta di mano, un paio di convenevoli e poi: «Perché non ti fai vedere, qualche volta? Perché non torni nel partito?».
Come se il partito, a suo tempo, non avesse cercato di liquidarmi, colpevole di aver contestato sulla stampa cittadina una scelta politica. Il giorno in cui venni convocato in quella che lo statuto definiva 'Commissione di garanzia'' di Rifondazione Comunista, il Segretario, rosso in faccia, chiese la mia espulsione: dovette accontentarsi di una sospensione. Abbandonai tuttavia il partito pochi mesi dopo, non era più casa mia.
«Sono qui da osservatore, non da simpatizzante», ho chiarito al mio vecchio compagno, mentre attorno a noi, come le comparse di certi vecchi film che nelle scene di folla ripetono in continuazione la stessa frase, era tutto un mormorare: «Banche... Pd... Monte dei Paschi; banche... Pd... Monte dei Paschi...».
In sala, il vecchio compagno mi presenta ai Giovani comunisti, già in platea.
Due file di poltrone, complete «e non sono nemmeno tutti!», mi dice lui, mentre un paio di persone sembravano esercitarsi nel pugno chiuso, tendendolo verso il palco, dove, al fianco di Antonio Ingroia, di lì a breve si sarebbe seduto il loro segretario. «Il loro segretario è un ex di Forza Italia», non riuscivo a togliermi dalla mente io.
Mi siedo una fila più avanti, la prima. Dietro di me, il coordinatore del gruppo prende a rimarcare la differenza tra Rivoluzione Civile, «vicina ai cittadini», e il centrosinistra, «vicino alle banche». Mi volto, per suggerirgli argomenti più originali, ma indossa una felpa con la stella rossa sul petto e desisto. Al suo fianco, un giovane coi capelli che paiono usciti da un manga giapponese e una ragazza dalla chioma lunga e liscia, se ne stanno abbracciati, viso contro viso.
Poi, tra le gigantografie del suo stesso volto, Antonio Ingroia fa ingresso in sala. E' un piccolo delirio. «Eccolo, eccolo!», sussurra emozionato il giovane con la stella rossa in petto, strattonando la coppia al suo fianco, che si disfa: lei rimane con le mani appoggiate alle ginocchia; lui tra le mani tiene un tablet, che muove per aria, per dar modo alla webcam di intercettare Ingroia, il quale, da uno stretto passaggio sul lato della platea, si dirige verso il palco, prendendo posto a sedere tra il candidato al Senato - sì, l'ex capogruppo di Forza Italia - e il segretario provinciale di Rifondazione Comunista, un ragazzo poco più che ventenne.
Mentre vengono sistemati i microfoni, con la folla che ancora rumoreggia, un ingresso inaspettato: il sindaco della città. Trafelato, senza giacca, verosimilmente giunto di tutta fretta dal suo ufficio poco distante, prende la parola, in piedi, su un lato del palco, per portare ad Antonio Ingroia «il riconoscimento e il ringraziamento di tutti gli astigiani». Lui, rappresentante della città tutta, nonché esponente del Pd, eletto nel Pd e per il Pd, invita «il territorio astigiano a compiere quello sforzo di remi necessario per raggiungere i numeri e per mandare Alberto Pasta in Parlamento».
Alberto Pasta è appunto l'assessore alla Trasparenza e Legalità, ora in quota Italia dei Valori, ex capogruppo di Forza Italia, candidato al Senato nelle liste di Rivoluzione Civile.
La gente in sala, lei, applaude. Simpatizzanti, militanti, curiosi, anziani, giovani: tutti applaudono al primo cittadino che fa prevalere la vicinanza territoriale sull'appartenenza politica.
E tutti applaudono al discorso di Pasta, che arringa la folla mettendola in guardia «dai politici che vogliono prenderci in giro», perché, lui, è «rispettoso e tollerante nei confronti di tutti gli avversari politici, ma meno nei confronti di quelli che vogliono prendersi gioco del popolo italiano promettendo che faranno il contrario di quanto fatto nell'ultimo anno e mezzo».
Applaudono anche quei militanti di Rifondazione Comunista che mi avevano confidato di averlo scritto «a Roma che Pasta non era la candidatura migliore, ma non ci hanno voluto sentire, hanno deciso tutto lì».
Al discorso di Ingroia, invece, gli applausi si fanno boato, con taluni che ne assecondano le pause urlando: «Bravo! Bravo!». Un boato che accompagna il passaggio sul disarmo, sul ripristino dell'articolo 18, sulla ridiscussione del Fiscal compact e sui matrimoni e adozioni per le coppie omosessuali. Ma un boato che accompagna anche le contraddizioni nel quale incespica nel suo argomentare. Come quando, dopo essersi detto «contrario ai professionisti della politica», si vede costretto a dire che invece «Di Pietro è un professionista della magistratura che ha anche fatto il politico, così come ha fatto l'operaio». Oppure: «I leader di partito in lista sono 4 su 945, Rivoluzione Civile è movimento che viene dalla società civile, noi diciamo le cose come stanno, noi non siamo usi alla politica». E poi, a proposito del Movimento 5 Stelle: «Portare in Parlamento competenze e impegno civile è un conto, ma portare tanti cittadini, sicuramente onesti, che però non sono poi in grado di conoscere gli strumenti e il funzionamento delle dinamiche politiche parlamentarie è un altro discorso».
Un boato che invece si fa quasi applauso di circostanza quando Ingroia illustra il programma di Rivoluzione Civile in materia di immigrazione: «Abolizione della legge Bossi-Fini, che produce solo irregolarità e sofferenza».
«Sensi, il suo è il sorriso di Franti».
Eccolo, allora, quel sorriso, nell'interpretazione di Umberto Eco: «L'ultimo grido di buon senso ferito di fronte alla frenesia collettiva». Me lo sentivo affiorare sulle labbra mentre mi avvicinavo al tavolo dei relatori.
Ingroia, chiuso il suo discorso, era già in piedi: «Devo scappare, mi aspettano ad Alessandria». Sorrideva, ma non un sorriso ruffiano, né compiaciuto: forse anche il suo era un sorriso di Franti.
Gli ho chiesto di fermarsi, di rispondere ad un paio di domande. Lui mi ha fatto cenno di chiedere e io ho parlato: «Lei ama ripetere che il berlusconismo ha guastato il modo di pensare degli italiani. E' per questo, è per questo guasto causato dal berlusconismo anche al modo di pensare della sinistra, che lei oggi viene qui a sostenere la candidatura di chi, in questa città, è stato capogruppo di Forza Italia?».
Ingroia ha cambiato espressione, il sorriso gli si è spento sulla bocca. Il suo sguardo si è fatto severo, come non lo era stato per tutto l'incontro. Poi si è tirato su, ha preso un po' di tempo raccogliendo qualche altra domanda dai cronisti della stampa locale e quindi, finalmente: «Io non rispondo del passato politico dei miei candidati, io rispondo del presente e del futuro: i miei candidati sanno di dover sottoscrivere il programma politico di Rivoluzione Civile e devono regolarsi in base al programma politico di Rivoluzione Civile».
Raccolta la mia giacca, ho lasciato il teatro. Non voterò Rivoluzione Civile, ma forse è giusto che lo facciano quei ragazzi che mi stavano alle spalle: il giovane con la stella rossa in petto, la ragazza dalla chioma lunga e liscia e il suo compagno, coi capelli che sembrano usciti da un manga giapponese.
E' giusto che lo facciano perché dagli adulti si pretende senso di responsabilità, ma ai giovani si deve il sogno, perché il sorriso di Franti venga preservato dalle grinfie dei 'mestieranti della politica'.