
Michele ha avuto un'adolescenza comune a molti: vita di provincia e sogni nascosti da qualche parte. La pasta dei sogni dev'essere protetta e nel caso di Michele le protezioni erano la poesia, la musica e il teatro. Difficile realizzarli quando ci si sente lontani da dove accadono le cose. Ma con tenacia si può. Michele studia e partecipa ai primi laboratori teatrali nella periferia estrema di Taranto. Viene da un quartiere in perenne difficoltà, il Paolo VI, e cresce con i ragazzi che vivono tra i casermoni di cemento, con la vitalità dei ragazzi di vita.
Michele Riondino è oggi uno degli attori più bravi del nostro cinema, diventato popolare nei panni del Giovane Montalbano. Michele viene da una famiglia operaia. Forse il padre sognava per suo figlio un futuro diverso. Forse lo immaginava archeologo o professore, ma un giorno a tavola Michele confida che vuol tentare l'impresa di entrare all'Accademia di arte drammatica.
«E CE CO'S YÈ ST'ART DRAMMAT'C?» , gli risponde preso del tutto alla sprovvista il genitore. «Pa', è una scuola dove ti insegnano a recitare, dove diventi attore». Questo scambio di battute emblematico potrebbe essere l'inizio di una débâcle o di una storia a lieto fine, che diventa tale proprio grazie alle difficoltà e le avventure (che Riondino racconta bene) nella sua adolescenza scapigliata. Cresciuto in mezzo alle ciminiere dell'ex Italsider, oggi Ilva, ha le idee chiare sulla sua terra. «Quando ci vivevo, non mi piaceva Taranto. Poi però sono andato via. E allora ho cominciato a pensare a tutto quello che questa città mi ha dato, in termini di bellezza e di esperienza. E a distanza di anni e di chilometri quello della mia città è ancora un pensiero che mi commuove».
RUBARE LA VITA AGLI ALTRI (Fandango) di Michele Riondino è la storia di una realizzazione. Rubare è una parte del lavoro dell'attore, sempre a impossessarsi delle espressioni di altri. Sempre a rubare lacerti di realtà. È esattamente ciò che succede agli scrittori, che sono osservatori, attenti entomologi dei dettagli, che fanno loro per poi raccontarli. Ma questo non basta e Riondino spiega: «Gli spunti sono importanti, ma poi come si fa a studiare un gesto e poi riportarlo su qualche altro?». La risposta la dà più avanti, parlando dello studio e soprattutto dell'esperienza che è il bagaglio fondamentale di qualsiasi attore abbia l'umiltà di volerla osservare e poi afferrare. Riondino narra di quella volta che Peter Brook mentre preparava "Uno sguardo dal ponte" scoprì che qualcuno assisteva alle prove, nonostante avesse espressamente vietato a chiunque di farlo. Brook, furibondo, salì le scale del teatro per cacciare via l'intruso e si accorse che si trattava di Marilyn Monroe che con estrema naturalezza indicò l'attrice che interpretava Catherine: «È molto brava ma nel testo di Miller il suo personaggio ha sedici anni; nessuna ragazza di sedici anni ancheggia». Brook accolse l'indicazione di Marilyn.
Capita a tutti, attori, scrittori, registi di trovarsi di fronte a occasioni da afferrare, ma bisogna avere la pazienza e soprattutto l'umiltà di farlo. E la follia di gettarsi a corpo morto. Non rinunciando alla libertà che per l'attore è rendersi libero dai giudizi sui personaggi che si interpretano o raccontano. Maestra di libertà, per Riondino, è stata Emma Dante, drammaturga e regista palermitana che gli ha insegnato a dare libertà al personaggio, qualunque cosa faccia, dalla più turpe alla più nobile.
La storia di Michele Riondino mi piace raccontarla, perché è la nota positiva di un Sud carico di talenti. Nonostante le difficoltà, l'esperienza e lo sguardo possono salvarti e portarti a realizzare l'impresa che vista da Mezzogiorno sembra la più impossibile: fare arte e vivere d'arte.