Conosco Alessandro Leogrande da moltissimo tempo. Siamo coetanei, siamo nati e cresciuti in due periferie dimenticate, complicate. Dimenticate dalle cronache nazionali, dimenticate dalla grande politica. Citate solo quando la situazione diventa talmente grave che ignorare non è più possibile. Ricordate solo quando ci sono morti, morti ammazzati o morti per emissioni nocive. Leogrande racconta la Puglia, con l'ossessione e il rigore di chi osserva e giudica ciò che ama.
Da mesi sentiamo parlare di Taranto perché sede dell'Ilva, ma si sa poco di cosa sia stata questa grande città industriale. Leogrande in "Fumo sulla città" (Fandango Libri) scrive che Taranto è lo specchio del paese Italia. È uno dei più bei reportage usciti in questi tempi, perché copre un arco di quasi vent'anni e inizia quando, nel dicembre del 1995 il suo autore, appena diciottenne, assiste alla manifestazione organizzata dall'allora sindaco di Taranto, Giancarlo Cito, contro il suo rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa. Il racconto di questa grande città a strati, in cui i piani - storico, temporale, sociologico - si accavallano inizia da lì. Ed è il racconto di una città che paga le conseguenze di politiche industriali dissennate, di una città che cammina sulla corda tesa tra salute e lavoro, un dilemma che spesso viene presentato dai media come una normale scelta economica e sociale. Vuoi lavorare o vuoi vivere sano?
Si chiede di scegliere tra pane e veleno. Leogrande racconta come questa situazione sia frutto di una politica cieca: la devastazione amministrativa degli anni Novanta, il fallimento della partecipazioni statali, l'esplosione del sistema politico e infine la mattanza della mafia tarantina. Il reportage di Leogrande racconta dapprima la parabola di Cito, che diventò sindaco anche grazie all'uso spregiudicato della sua emittente televisiva che trasmetteva lunghi ed estenuanti comizi che accendevano le folle con pura demagogia. Ma Taranto è anche città di interessi nazionali dove la politica sembra sperimentare sulla pelle dei tarantini il terribile binomio lavoro-salute. E Leogrande ci spiega cosa sta accadendo in questo momento. Chiarisce che le posizioni su siderurgico e ambiente e mostra quanto siano complesse, molto più di quanto si creda.
Il lavoro in fabbrica non dovrebbe essere sinonimo di mera occupazione, utile a scacciare il dramma della disoccupazione, ma in condizioni di lavoro adeguate, anche una base per liberarsi dalle miserie umane. Leogrande studia, racconta e indica soluzioni; migliorare le condizioni di operai e dirigenti, ma anche i rapporti tra la fabbrica e le zone limitrofe. Il rapporto tra il lavoro, l'industria, la città, il suo territorio, la vita di ogni uomo, donna o bambino. La salute mentale e fisica di chi è operaio e di chi operaio non è, può trovare un punto di equilibrio solo all'interno di un'alchimia molto articolata, dettata da una politica che sia al servizio dei cittadini. Leogrande tenta di immaginare un nuovo umanesimo che possa difendersi dall'aggressività del profitto.
"Fumo sulla città" si chiude con un incredibile racconto sulle due isole del Mar Grande di Taranto, San Pietro e San Paolo, posti disabitati e ricchi di un fascino ignoto da dove, secondo Leogrande, i tarantini e gli italiani possono ricominciare, possono aprire una nuova stagione. «Da qui, mi dico mentre guardo dal terrazzo della casa in cui sono cresciuto le ciminiere dell'Ilva che vomitano fumo, le gru immobili del porto, le navi ormeggiate in attesa di scaricare il minerale o caricare i laminati, il golfo che si allarga all'orizzonte, le isole di San Pietro e di San Paolo, e poi ancora la città vecchia, il traffico incolonnato della sera, i palazzoni che si susseguono quartiere dopo quartiere spesso identici tra loro, l'inizio della campagna e la strada che corre dritta, verso la collina di Martina Franca». Non capire Taranto significa non capire il proprio paese.
Inchiesta28.03.2012
Precari e veleni, Taranto muore