Una figuraccia indimenticabile. A cui, inevitabilmente, è seguito l'azzeramento dei vertici. In pochi giorni, una bomba termonucleare ha polverizzato il partito arrivato primo meno di tre mesi fa. E adesso?

image/jpg_2205323.jpg
Sfilano tutti all'uscita nella notte del Pd. Vecchie volpi e giovani virgulti, ragazze con le lacrime agli occhi e notabili paonazzi, rottamatori e rottamandi. Il capo più chino addirittura di due sere fa, quando l'assemblea convocata per dare il via libera alla candidatura Marini finì a schifìo. Il teatro Capranica è il nuovo palazzo dei Veleni del Pd, escono uno a uno, senza fiatare. Volti sconosciuti. E pensi: uno su quattro di questi ha votato a tradimento per uccidere Romano Prodi e il suo partito. Inutile, ora, provare a capire chi è stato: giovani turchi o renziani, dalemiani o fioroniani. Come in “Assassinio sull'Orient Express”, le pugnalate arrivano da tutte le parti.

Traditori, li chiama con disprezzo Pier Luigi Bersani prima di dimettersi. «Tenete le mani a posto prima di applaudire, non tutti sono degni di farlo». Mani che qualche ora prima hanno scritto un nome diverso da quello che avrebbe potuto salvare quel che restava del centrosinistra e consegnare all'Italia un presidente prestigioso e fuori dai piccoli giochi di corrente, dopo avergli garantito i voti. Invece, eccolo qui il Pd, «non è più politica», mormora Lapo Pistelli, ormai un veterano, è un cinico videogame, si spara a vista, avanti un altro.

Muore la patria del Pd, in questo 19 aprile che è l'8 settembre del partito, la notte del tutti a casa. Dirigenti in fuga, tradimenti, diserzioni, il partito lasciato in balia, terra di conquista di potenze straniere, Grillo se ne mangia un pezzo, Berlusconi un altro. Restano sul campo il fondatore dell'Ulivo Prodi, nella sera più triste, quella in cui scompare l'amico di una vita, Angelone Rovati, lui avrebbe sdrammatizzato tutto con una battuta, «casso Romano!», ma anche Angelo l'omone giocatore di basket che alzava il muro quando attaccavano il suo amico e leader stasera non c'è più, chissà cosa avrebbe detto di quei cento vigliacchi.

È un otto settembre, ma anche un attentato politico, una specie di via Fani organizzata in casa, lì le Brigate rosse rapirono e uccisero Aldo Moro per distruggere il suo progetto politico, oggi coperti con il passamontagna del voto segreto i killer travestiti da onorevoli eliminano l'ultima figura di prestigio che restava, dopo il quale c'è il baratro, la resa incondizionata al Caimano o l'annessione al Movimento 5 Stelle con il voto a Stefano Rodotà. Senza neppure uno straccio di politica alternativa: nel 1998, quando cadde il primo governo Prodi, almeno c'era un progetto alternativo, e infatti partì il governo D'Alema. Questa volta nulla: solo la disperazione.

«Chi vota contro Prodi butta giù se stesso», ripetevano i dirigenti più in vista prima del voto per rassicurare sulla tenuta.Ma l'aria era già pesante nella tarda mattinata, dopo la breve fiammata di entusiasmo dell'applauso della mattina per Prodi. Standing ovation sospetta, unanimità fasulla. «In tre mi sono venuti a dire: mi raccomando quando Bersani fa il nome di Prodi alzati in piedi e batti le mani», racconta a cose fatte la neo-eletta modenese Giuditta Pini, giovanissima ma già pasionaria del partito emiliano in rivolta. Niente da fare, nessun appello è bastato. E un minuto dopo l'esito delle votazioni parte la riffa delle accuse e controaccuse: sono stati i dalemiani, no, i fioroniani, macché, sono stati i renziani, hai visto la rapidità con cui Renzi ha invitato il Professore a farsi da parte? Eppure il sindaco era stato il grande sponsor del Professore: difficile che possa restare indenne dal terremoto. C'è chi accusa i giovani, tutti su twitter, troppo sensibili alle pressioni dei social network, protagonisti della rivolta della sera prima contro Franco Marini. E chi se la prende con i vecchi: si sono vendicati per la brutta figura rimediata il giorno prima. Ma il problema è che nessuno conosce nessuno, nei gruppi parlamentari, e quel che è peggio è che nessuno si fida più uno dell'altro. «Siamo di fronte al cinismo di una classe dirigente che ha avuto il merito di fondare il Pd, ma che ora non ha il diritto di distruggerlo», sospira Matteo Orfini, pensa anche al suo capo Massimo D'Alema.

Durante la riunione della vergogna si vede perfino il senatore Massimo Caleo che grida vergogna contro Bersani, quasi si avventa sul tavolo della presidenza quando decidono la chiusura dell'assemblea senza dibattito. La discussione è vera, finalmente all'aria aperta, in una piazza che ribolle di rabbia. Sfilano all'uscita dal teatro dei Veleni, in mezzo alle telecamere di un circo mediatico, in mezzo a un coro da tragedia greca, questa volta nessuna contestazione, solo un silenzio allibito. Camminano sulle macerie, i grandi elettori senza onore, in un Pd jugoslavo, libanizzato, fazioni contro fazioni, kamikaze impazziti. A proposito, questa mattina si ricomincia a votare. Il presidente lo sceglieranno Berlusconi o Monti. Oppure Beppe Grillo.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il rebus della Chiesa - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso