Volevano protestare contro gli INVALSI. Essendo la generazione della rete, la loro protesta non poteva che passare attraverso il web. Così appena concluso nelle scuole il test degli INVALSI, il questionario ministeriale obbligatorio somministrato quest'anno anche alle superiori, la rete è stata invasa di fotografie di singoli studenti che mostravano cosa avevano scritto sui fascicoli da compilare. Domande del test che ricevevano risposte bizzarre, sfottenti, volutamente scorrette. Invece di mettere le crocette sulle risposte standard, gli studenti si sono scatenati: “Quanti siete in famiglia?” “Semo un esercito” “Devo conta' pure Pinuccio?”, e così via, scherzando. Il tutto per sabotare, e certificare il sabotaggio, dei test, che non riescono davvero ad essere amati né dai docenti né dagli alunni.
Postare sulla rete le foto di schede di voto o altro per protesta o mossi dall'idea di creare così maggiore “trasparenza” non è cosa nuova: il giorno delle elezioni Facebook e gli altri social furono riempiti di scatti di persone che, entrate in cabina con il loro smartphone, avevano poi postato la scheda elettorale che certificava il loro voto personale per questo o quel partito. E persino alle elezioni del Capo delle Stato alcuni deputati PD avevano postato la foto della loro scheda, per testimoniare di aver seguito le direttive del partito. Gli studenti non hanno quindi “inventato” alcuna forma nuova di protesta. Ma, proprio come i postatori di schede elettorali, hanno però infranto leggi e normative.
Se nel caso delle schede elettorali a essere infranto era il principio di segretezza del voto personale (e infatti le polemiche sul web furono feroci, perché chiedere di postare la foto della propria scheda per testimoniare di aver votato un certo partito è una procedura che potrebbe avvantaggiare clan mafiosi e voto di scambio), nel caso dei test Invalsi ad essere infranta è la normale regolamentazione scolastica, che prevede che dentro le aule i telefonini e i cellulari debbano essere rigorosamente tenuti spenti anche durante le ore di lezione normale, figuriamoci quando è in corso una prova nazionale, come in questo caso, o un esame di Stato.
Ormai nelle scuole il nodo della regolamentazione dell'uso degli smartphone è un problema sentito, e che si riacutizza poi quando finiscono su Youtube, come è successo in anni passati, video che riprendono episodi di bullismo ai danni di compagni o professori.
Le normative in realtà sono chiare: già nel 2007 l'allora Ministro Fioroni stabilì che all'interno degli edifici scolastici nessuno, né docenti né alunni, è autorizzato a tenere aperto ed usare lo smartphone durante le ore di lezione; in aggiunta a questo testo, molti istituti di ogni ordine e grado (ormai non è raro che persino alunni delle elementari abbiano il cellulare personale) si sono dotati di regolamenti interni che stabiliscano i limiti e le sanzioni per chi usi il cellulare in classe.
Il problema, come al solito, è il controllo. Da un lato docenti e Presidi si ritrovano spesso impossibilitati a confiscare i telefonini: la giurisprudenza in merito stabilisce infatti che i telefonini possono essere sequestrati solo se si trovano in bella vista, non è possibile per il docente perquisire le cartelle né gli spazi privati dell'alunno, inoltre anche quando “confiscato” durante l'ora di lezione dovrebbe andare restituito alla fine della stessa e non è possibile che sia trattenuto dal Preside e riconsegnato solo ai genitori. Pur essendo quindi vietatissimi, i cellulari spesso continuano a essere usati dagli alunni appena i docenti si distraggono un attimo, emergono dalle cartelle o dalle tasche, vengono smanettati nei bagni durante la ricreazione.
Quando Fioroni inoltre ha emanato la circolare, le scuole non erano munite di Wi-Fi né gli alunni di tablet. Se in un prossimo futuro ogni alunno avrà il suo tablet per seguire le lezioni in classe, e potrà quindi liberamente accedere al Wi-Fi della scuola, sarà praticamente impossibile controllare ogni secondo che lo usi solo per fini di apprendimento, e non per registrare, postare, fare foto e inviarle poi ai vari social.
La protesta contro gli INVALSI non ha avuto pesanti ricadute per ora sugli alunni colpevoli, anche perché la prova nazionale, pur essendo obbligatoria, nelle classi delle superiori non costituiva un “esame” ufficiale, ma solo una rilevazione statistica. Diverso sarà il caso se gli alunni posteranno foto delle loro risposte nel caso della prova INVALSI facente parte degli esami di Stato. In questo caso i ragazzi rischiano grosso: l'annullamento della prova e una possibile bocciatura, anche perché risalire tramite ip a chi ha postato le foto delle prove non è poi così difficile, soprattuto se poi le fotografie vengono condivise su Facebook in profili personali facilmente identificabili con nome e cognome.
Insomma, si spera che la goliardata contro gli INVALSI non si ripeta in futuro, se no altro per evitare che i “boicottatori” ne paghino pesanti conseguenze.
Resta però la necessità di riflettere sul fatto che queste prove non riescono a trovare consenso né fra molti docenti (alcune sigle sindacali come Cobas e Unicobas infatti avevano preventivato uno sciopero il 7, il 14 e il 16 maggio per “bloccare” la somministrazione delle prove) né fra alunni e genitori (anche quest'anno alcuni genitori hanno preferito tenere i figli a casa per non sottoporli a test). Anche stavolta la rete non è la causa del malessere, semmai la spia di un qualcosa che nasce fuori da essa e che prima o poi bisognerà affrontare.