Il Divo è morto questa mattina a 94 anni, per combinazione quasi lo stesso giorno che aveva segnato la sua vita politica, il 9 maggio di trentacinque anni fa, il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro nella Renault rossa in via Caetani. E non si può dimenticare, oggi che Giulio Andreotti è definitivamente consegnato alla storia, il giudizio che Moro diede di lui nel suo memoriale: «Non è mia intenzione rievocare la grigia carriera. Non è questa una colpa. Si può essere grigi, ma onesti; grigi, ma buoni; grigi, ma pieni di fervore. Ebbene, On. Andreotti, è proprio questo che Le manca. Lei ha potuto disinvoltamente navigare tra Zaccagnini e Fanfani, imitando un De Gasperi inimitabile che è a milioni di anni luce lontano da Lei. Ma Le manca proprio il fervore umano. Le manca quell'insieme di bontà, saggezza, flessibilità, limpidità che fanno, senza riserve, i pochi democratici cristiani che ci sono al mondo. Lei non è di questi. Non Le basterà la cortesia diplomatica del Presidente Carter, che Le dà (si vede che se ne intende poco) tutti i successi del trentennio democristiano, per passare alla storia. Passerà alla triste cronaca, soprattutto ora, che Le si addice. Che cosa ricordare di Lei? Durerà un po' più, un po' meno, ma passerà senza lasciare traccia…».
Parole sferzanti. Moro aveva conosciuto Andreotti da ragazzo, nella Fuci del futuro papa Montini. Era più anziano di lui di appena tre anni, insieme avevano scalato tutti i gradini del potere. Lo odiava, racconta chi ha conosciuto i pensieri dello statista democristiano, Moro non si sarebbe mai potuto dare pace a sapere che lui era morto ammazzato in un covo di terroristi mentre il suo rivale gli sarebbe sopravvissuto per più di tre decenni. E il fantasma di Moro ha continuato a tormentare Andreotti, come intuito artisticamente da Paolo Sorrentino nel film "Il Divo" (2008). Fino a oggi.
Il Divo è morto questa mattina di pioggia nella sua Roma, ma sembrava scomparso da tempo. Si era già, consapevolmente o meno, affidato all'eternità della sua immagine, della sua leggenda nera. Orecchie da pipistrello, gobba crescente, occhi stretti come fessure di un salvadanaio dietro le lenti, labbra sottili, dita lunghe e affusolate. L'immagine dell'immortalità del regno democristiano. Il potere per il potere, che logora chi non ce l'ha. Il volto nascosto della Balena Bianca. La volpe machiavellica travestita da innocente colomba.
Avevano cominciato a chiamarlo Belzebù quando sarebbe stato impensabile vederlo sotto processo per mafia. Il primo a farlo fu Craxi nel maggio 1981. Craxi parlava del venerabile maestro della loggia P2 Licio Gelli come di Belfagor, un demonio minore, che per agire doveva avere alle spalle un mandante, un protettore, Belzebù. E tutti pensarono ad Andreotti. All'esistenza del diavolo, il sette volte presidente del Consiglio ci credeva davvero. A dirla tutta: nominava nei suoi interventi più il diavolo di Dio. Quasi un'ossessione, tipica di una certa religiosità tutta paura dell'Inferno et indulgentia plenaria. Nel 2000 scrisse una lunga lettera al Diavolo Capo, per il mensile "Lettere", con una chiusa beffarda: «Se, non si offenda, si arrivasse a concludere che davvero Lei è un'invenzione, ne riporterei personalmente un beneficio. Taluni miei avversari, pubblici o privati, la smetterebbero finalmente di chiamarmi Beelzebub».
Nel corso degli anni Andreotti era diventato Belzebù. Il Grande Vecchio. Il Male assoluto. Sempre associato a tante cattive compagnie: il maresciallo di Salò Rodolfo Graziani con cui ci fu il leggendario "abbraccio" di Arcinazzo, il generale Raffaele Giudice, Gelli, i banchieri Calvi e Sindona, il direttore di "Op" Mino Pecorelli. Morti avvelenati, morti ammazzati. L'uomo dei dossier e dell'Archivio, che si sussurrava contenesse i segreti nazionali. L'Armadio Andreotti, in cui nell'immaginario trovavano posto tutti gli scheletri d'Italia. Quando poi fu consegnato all'Istituto Sturzo in 3500 faldoni, conservati in un sotterraneo del cinquecentesco palazzo Baldassini, si vide che dentro c'era di tutto: documenti, ritagli, lettere, videocassette, nastri sonori, litografie, foto. Perfino, avvolta in una elegante confezione rossa, una tavoletta di cioccolato reperita chissà quando in un albergo di Cap Ferrat, in Costa Azzurra. Il Divo l'aveva pure assaggiata, prima di archiviarla: l'impronta del morso diventerà una reliquia dell'andreottismo, culto che ha dominato inconfessabilmente la vita della Prima, della Seconda e di tutte le Repubbliche.
Il Cardinale della Repubblica, lo descrisse secoli fa Leo Longanesi: «Andreotti tiene la testa china sulla spalla sinistra, forse per l'abitudine di portare il Santissimo in processione. Egli possiede uno sguardo che dà garanzie, che lascia sperare: uno sguardo molle, venato di rosso cardinalizio». Il Mandarino, lo chiamò nel 1959 Eugenio Scalfari. Per poi ribadire trent'anni dopo, durante la formazione dell'ennesimo governo del Divo: «Andreotti non perdona. Andreotti non dimentica. Andreotti non tramonta. Ha gli occhi obliqui di un mandarino cinese, le labbra strette di un gesuita settecentesco, l'andatura circospetta di chi nasconde a se stesso la propria ombra».
Il fondamento del potere andreottiano era la gerarchia ecclesiastica, il Vaticano. L'aristocrazia papalina, con Giulio Pacelli, Filippo Serlupi Crescenzi e Stanislao Pecci esentati "ad personam" dal pagare le tasse. Il cardinale Fiorenzo Angelini, "Sua Sanità", cappellano della corrente andreottiana. Per l'amico-rivale Cossiga, «Andreotti è un classico servitore della Chiesa. C'è da chiedersi se a un certo punto avesse più influenza il Vaticano su di lui o lui sulla Chiesa». Per l'antipatizzante Baget Bozzo, «Andreotti non è un democristiano, non ha mai amato la Dc. Un clericale romano, che ha trovato il suo punto di riferimento nel potere temporale della Chiesa».
Poco partito, molto Stato, con incursioni in terreni sconosciuti agli altri democristiani: l'esercito (ministro della Difesa per tutti gli anni Sessanta), il cinema (l'amicizia con Sordi e Fellini), i premi letterari (con l'interminabile serie "Visti da vicino"), le trasmissioni televisive (tra i primi a confessarsi nel salotto di Maurizio Costanzo "Bontà Loro"), le amicizie in territorio nemico: il comunista Paolo Bufalini, Giorgio De Chirico che gli aveva donato un bellissimo ritratto in vestaglia e Renato Guttuso, il corsivista dell'"Unità" Fortebraccio.
Sembrava arcaico, invece era modernissimo. Beniamino dei vignettisti di ogni generazione e colore politico. Premio Forte dei Marmi per la satira. Nel 1987 l'assessore ciellino del Comune di Torino Giampiero Leo, per celebrarlo, finanziò una raccolta di caricature con il titolo "caro Giulio". In cui c'era di tutto: l'Andreotti sottosegretario censore degli anni Cinquanta («ha finito di spogliare la corrispondenza?», chiede al segretario. «Bene, allora può togliere il paravento»), il braccio destro del presidente del Consiglio («Io dirigo Beethoven», dice un giovinetto. «Io dirigo De Gasperi», replica "Giulietto". Titolo: «Ragazzi prodigio»), il recordman delle poltrone ministeriali degli anni Sessanta, l'uomo più potente d'Italia degli anni Settanta-Ottanta, le copertine del "Male", le vignette di Giorgio Forattini, le tavole di Pericoli e Pirella: «Mi hanno escluso dalla lista dei sospetti del caso Cirillo. Non conto più niente». «Cari liceali di Palermo, Dalla Chiesa? Non ricordo. Impallidire? Non ricordo. Legato a Lima e Ciancimino? Non ricordo. Credetemi. Ho una gran memoria per le cose che non ricordo…». Il dubbio finale in un disegno di Giuliano: Andreotti che penzolava da una croce e diceva: «Mamma, ho paura che stavolta la resurrezione non mi riesca».
Le generazioni passavano e i governi scorrevano di numero: Giulio I, II, III… VI, VII. Insomma, il potere che logora chi non ce l'ha, come recita il suo aforisma più famoso. La sua vita politica era terminata ancora in un altro maggio di sangue, il 1992, quando aveva fallito l'obiettivo di andare al Quirinale. «La prego di dire a Gava che se non sarò Presidente della Repubblica finirà la Prima Repubblica», aveva mandato a dire la sera prima dell'inizio delle votazioni al potente notabile doroteo. Una cupa profezia. Qualche ora prima, nel pomeriggio, di fronte ai prefetti riuniti al ministero dell'Interno, il Divo Giulio si era lasciato andare a qualche ragionamento insolito per lui. «Può darsi che sia meglio che i partiti se ne vadano, che sciolgano le fila. O che almeno si trasformino in comitati elettorali all'americana». La voce nasale del presidente del Consiglio si era affilato ancora di più quando era passato ad esaminare il tema più scabroso di quei giorni, lo scandalo di Milano: «I problemi che nascono dalle recenti inchieste vanno affrontati politicamente. Bisogna abolire il finanziamento pubblico dei partiti prima che sia un referendum a farlo». E, già che ci siamo, aggiunse, è necessario procedere anche con il dimezzamento del numero dei ministeri. Parole inaudite: in platea i funzionari abbottonati nel loro abito blu, impietriti, sconcertati da quelle parole che arrivavano dall'uomo che del Sistema era il simbolo vivente. Il colpo più duro arrivò in finale, un cupo esame di coscienza, un mea culpa pubblico, una sentenza terribile, senza assoluzione né redenzione: «Per certe cose e per certe scelte che abbiamo fatto meritiamo l'Inferno. Che il Signore ci perdoni».
Arrivò l'Inferno in terra: la strage di Capaci mentre stava per essere votato presidente, l'avviso di garanzia per mafia, l'interrogatorio davanti alla giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato in Sant'Ivo alla Sapienza, uno dei capolavori del barocco e di Francesco Borromini, dove si riunivano gli universitari cattolici e Andreotti cominciava a farsi notare nella vita pubblica all'inizio degli anni Quaranta: tutto finiva nel luogo dove tutto era cominciato, sotto la pioggia, in mezzo a muro di cameramen di tutto il mondo, messicani e giapponesi, urla, i piccoli passi andreottiani che assomigliavano a un fruscio, il passo felpato di chi sa e può tutto, di chi appare e scompare senza fartelo sentire, si erano trasformati nel cammino incerto di un vecchio incontro al suo patibolo: «Io sinceramente avrei preferito che la mafia, o chiunque fosse che allora ce l'aveva con me, mi avesse fatto fare la fine di Dalla Chiesa invece di essere costretto a difendermi da queste calunnie», si difese. E poi: «Hanno calpestato un'intera vita». E poi i processi di Perugia e di Palermo. Andreottiano il processo: lui a capo chino, a prendere appunti senza fare una piega, senza perdere un'udienza. Andreottiana la sentenza, ambigua come un prisma, in cui ognuno poteva leggerci quello che voleva: assoluzione piena, ma con prescrizione per i fatti di mafia commessi fino al 1980. Ma fu lì che il Divo riacquistò la sua dignità di uomo ferito che combatteva senza scorciatoie, senza leggi ad personam, ad armi pari in un'aula di tribunale.
Incassata la sentenza è scomparso, rare incursioni, quella spettrale in un salotto della domenica televisiva, l'ultima battaglia per la presidenza del Senato nel 2006, il segno della gobba marchiato sullo schienale del suo seggio nell'aula di Palazzo Madama. Intanto cresceva una paradossale nostalgia di Andreotti: il potere esercitato con ferocia ma in punta di piedi, la curiosità e il rispetto per gli avversari, anche i più lontani, l'eleganza, il sapere dove mettere le mani, qualità rimpianta nella stagione dei politici pasticcioni e arroganti. Il Politico per eccellenza, quando la politica ancora contava. Somma astuzia, infinito cinismo, ma anche eccelsa capacità di rappresentare la società italiana nelle sue pieghe sconosciute. Dare risposte, si diceva. Includere sempre, escludere mai.
Il Divo ci ha voltato le spalle in una mattina piovosa di maggio, come il suo amico-nemico Aldo Moro, ma aveva già terminato la sua corsa terrena da anni. «Alla mia morte voglio essere ricordato come un rappresentante del popolo italiano che si è sforzato di compiere il proprio dovere. Spero che questo riconoscimento avverrà, da parte vostra, anche essendo io vivo», disse alla Camera durante uno dei tanti voti per un'autorizzazione a procedere. Sopravviverà a se stesso, di qui all'eternità. Noi no: noi moriremo democristiani.