Economia
9 agosto, 2025Cresce la quota di lavoratori poveri, al punto da compromettere la tenuta del welfare state. Inoltre, spremere i lavoratori, riduce la capacità d'innovazione delle imprese
Si fa spesso riferimento, nel dibattito politico e sui media, all’andamento dei salari in Italia senza la precisione necessaria per evitare ambiguità e interpretazioni distorte. Non sempre si chiarisce, ad esempio, se si tratta di salari nominali o reali (cioè che tengono conto dell’inflazione), di salari guadagnati nel corso dell’anno o in un’ora di lavoro, di salari riferiti a tutti i lavoratori o solo a quelli dipendenti del settore privato. E andrebbe enfatizzato che quasi sempre ci si riferisce ai salari medi di tutti i lavoratori, e la media, come è noto, nasconde un bel pezzo di realtà. Nel nostro caso nasconde l’andamento dei salari di chi guadagna molto poco e che, con le cautele del caso, possiamo chiamare lavoratori poveri.
Infatti, negli ultimi 2 o 3 decenni è molto cresciuta la quota di lavoratori che percepisce salari annuali bassissimi, inferiori a una soglia che, seguendo il modo in cui viene calcolata la povertà relativa, può essere fissata al 60% del salario mediano annuo. Adottando tale soglia, all’inizio degli anni ’90 si era lavoratori poveri (ovvero, a bassa retribuzione) se il salario annuo era inferiore a 12.800 euro; alla fine dello scorso decennio, in seguito alla riduzione del salario mediano, tale soglia era scesa a 11.460 euro (circa 5,8 euro per ora lavorata).
Ebbene, malgrado l’abbassamento della soglia, la quota di lavoratori con retribuzione inferiore alla soglia è molto cresciuta, dal 27% a più del 31%. Si accetti o meno questa definizione di povertà da lavoro, resta che la quota di lavoratori che guadagnano meno di 12.800 euro all’anno è molto aumentata, con ovvi effetti sui salari annui medi di tutti i lavoratori, che in quel periodo, in termini reali, sono diminuiti di oltre l’11%.
Per spiegare questo peggioramento è utile partire dalla considerazione che il salario annuale dipende da quanto si guadagna in un’ora di lavoro e dalle ore lavorate nell’anno. Dai dati emerge, innanzitutto, che il salario orario di molti è bassissimo e il faticoso dibattito sull’opportunità di introdurre il salario minimo legale nasce da lì. Ma dai dati emerge anche che le ore di lavoro, per molti, sono diminuite, con effetti di riduzione dei salari annuali. Questa diminuzione solo in pochi casi è frutto di una libera scelta. Dagli anni ’90 sono state introdotte nel mercato del lavoro numerose forme contrattuali non standard ed è molto aumentata la quota di dipendenti privati occupati con un contratto a termine (dal 12,1% al 27,3% fra il 1998 e il 2018) o part-time (addirittura dal 10,2% al 30,2% nello stesso periodo). Il ricorso a queste forme contrattuali varia con i settori di attività e ciò contribuisce a spiegare la diversa presenza di lavoratori poveri: si va da oltre il 60% negli alberghi e ristoranti a meno del 5% nella finanza.
Salari così bassi sono, naturalmente, un problema per chi li percepisce e ben difficilmente conciliabili con la vita dignitosa cui il lavoro dovrebbe permettere di accedere. A maggior ragione è così se il lavoro offende la dignità in modi ulteriori rispetto alle misere retribuzioni.
Ma le misere retribuzioni non sono soltanto un problema per chi le percepisce, non sono soltanto una violazione di principi essenziali di giustizia sociale. L’impatto sociale ed economico delle basse retribuzioni è profondo e pervasivo, in primo luogo sul sistema di welfare. Un mercato del lavoro inclusivo – che offra a tutti buona occupazione e salari adeguati – è necessario per il buon funzionamento di un welfare pubblico ampio e generoso che, più di ogni altra cosa, caratterizza il modello sociale europeo.
Da una parte, infatti, il mercato del lavoro contribuisce in modo cruciale al finanziamento della spesa per la protezione sociale (pensioni, sussidi di disoccupazione, sanità) e tanto più è così se la fonte sono i contributi (che incidono sul lavoro) o le imposte che, in Italia, gravano principalmente sui lavoratori dipendenti. La diffusione del lavoro povero e precario riduce questa base di finanziamento causando tagli alle spese che hanno ricadute sul benessere – corrente e futuro – di tutti o quasi. La stessa capacità di salvaguardare il sistema di welfare di fronte all’invecchiamento della popolazione, che accresce la spesa previdenziale e sanitaria, dipende dagli equilibri nel mercato del lavoro perché, banalmente, se cresce il numero dei lavoratori e crescono i loro salari si potrà sostenere una maggiore spesa sociale.
Dall’altra parte, un mercato del lavoro inclusivo migliora le tutele in caso di disoccupazione e di fronte alla vecchiaia. Ciò è vero sia quando l’importo delle prestazioni dipende dai contributi versati (come nel sistema pensionistico contributivo, nel quale, peraltro, l’importo della pensione è legato alla stessa età pensionabile e, dunque, ai contributi versati), sia quando l’importo è commisurato al salario guadagnato in precedenza (come nel caso degli ammortizzatori sociali). Contratti di lavoro adeguati – che danno diritto alle tutele di welfare – e salari dignitosi – da cui dipendono gli importi ricevuti – sono, dunque, necessari anche per garantire tutele adeguate. E ciò aiuta a comprendere le difficoltà del welfare italiano.
Ma i salari troppo bassi possono avere effetti negativi anche sull’efficienza economica e la produttività. Quei bassi salari, conseguenza della flessibilità da cui ci si attendevano effetti positivi su innovazioni, produttività e crescita economica che però sostanzialmente sono mancati, in molti casi contribuiscono a questi esiti negativi. Infatti, essi frenano le innovazioni perché ottenere profitti ‘estraendoli’ dal lavoro appare più conveniente che impegnarsi ad innovare. Inoltre, salari bassi demotivano i lavoratori e riducono la loro propensione a cooperare nell’impresa con effetti sulla produttività.
Non mancano, dunque, le ragioni per pensare che limitare la flessibilità e sostenere i salari abbia effetti nel complesso diversi da quelli evocati tra i quali primeggia la perdita di posti di lavoro e la riduzione della crescita. Non siamo di fronte alla tragica scelta tra maggiori salari per alcuni e perdita di occupazione per altri, oltre che minor crescita per tutti. I margini per conciliare giustizia sociale e dinamismo economico sembrano esservi, ma per metterli a frutto occorre abbandonare l’idea che ogni goccia di rigidità del lavoro provochi tremendi temporali economici.
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