Dopo essersi equamente divisi ministeri e sottosegretari, Letta e Alfano hanno iniziato a piazzare i loro uomini anche nelle aziende statali, negli enti pubblici, nei servizi segreti e alla Rai. Perché le larghe intese si reggono anche sulle poltrone assegnate agli amici

Vedi, ai miei tempi noi comunisti dovevamo fronteggiare una sola Dc. Ora in questo governo di Dc ce ne sono due, una da una parte e una dall'altra...». Parola di Massimo D'Alema, il cui umore è stabilmente segnalato sul brutto tempo da quando è rimasto fuori da ogni organigramma, governativo e istituzionale, dalla presidenza della Repubblica al ministero degli Esteri. Le due Dc, quella di qui e quella di là, sono personificate dai gemelli del gol che guidano Palazzo Chigi, il premier Enrico Letta del Pd e il suo vice Angelino Alfano, che è anche ministro dell'Interno e segretario del Pdl, manco fosse Fanfani. Inizialmente presi sotto gamba dagli scettici inquilini del Palazzo: «Dureranno lo spazio di un mattino», profetizzavano vecchie volpi. Finché non hanno cominciato a scegliere, a decidere. E soprattutto a nominare: in Parlamento, nel governo, negli apparati dello Stato, dai servizi segreti alla Polizia. Nelle commissioni e nei comitati. Negli enti pubblici e, naturalmente, in viale Mazzini, alla Rai.

La Grande Coalizione, per ora, naviga a vista. Fatica a trovare un programma e un linguaggio comune perché, come ha ammesso lo stesso Letta nella prima intervistain tv da premier nel salotto di Fabio Fazio, la maggioranza Pd-Pdl (più Scelta Civica) non è nata dopo una lunga trattativa, come in Germania, ma sulla base di uno stato di necessità. E tuttavia questo è il primo governo politico della storia repubblicana in cui i partner sono soci alla pari, di uguale grandezza quantitativa e di equivalente presenza politica. Con la Dc, nella prima Repubblica, c'era un partito egemone e gli alleati minori. E nella divisione degli incarichi dominava il manuale Cencelli, che teneva conto dei dosaggi tra correnti all'interno dello Scudocrociato. Cose tipo: «Ai dorotei spettano 5,88 ministri e 12,12 sottosegretari; ai basisti 2,85 ministri». «Una volta», ricordava l'inventore Massimiliano Cencelli, «il ministero dell'Interno era tutto: distribuiva anche i fondi per gli affari di culto, valeva almeno cinque ministeri». Stessa storia, più o meno, nella Seconda Repubblica, con berlusconiani e diessini a occupare le posizioni migliori.

ESORDIO IN PARLAMENTO
Oggi la regola non scritta, ma già rigorosamente rispettata, è più elementare, si chiama pari dignità. Ovvero: siamo in due (Scelta civica conta poco), facciamo una cosa a me e una cosa a te. Una casella al Pd e una al Pdl e la pax è rispettata. Anche a costo di trasformare l'auspicata Grande Coalizione, una novità per la politica italiana, in una più familiare Grande Spartizione.

Si è cominciato con le commissioni parlamentari. Se a presiedere gli Affari costituzionali della Camera, strategica perché scriverà le riforme, c'è Francesco Paolo Sisto (Pdl), al Senato tocca ad Anna Finocchiaro (Pd). E così via: Giustizia (alla Camera Donatella Ferranti, Pd, al Senato Francesco Nitto Palma, Pdl), Difesa (Elio Vito, Pdl, Nicola Latorre, Pd), la commissione Lavoro con l'insolito tandem Cesare Damiano (Pd) e Maurizio Sacconi (Pdl), la commissione Agricoltura che al Senato è presieduta dal redivivo Roberto Formigoni e alla Camera dal Pd Luca Sani... Un metodo che funziona, devono essersi confidati nella nuova maggioranza.

E dunque via con i posti di governo e di sottogoverno. Coppie di sottosegretari Pd-Pdl per ogni casella-chiave. Senza infingimenti, senza i travestimenti tecnici di un tempo, stagioni terminate con il tramonto di Mario Monti: il governo politico nomina i politici, altrimenti che senso avrebbe? «E poi con i partiti in crisi finanziaria e con i tagli delle risorse pubbliche in arrivo servono posti di segreteria e di ufficio stampa per collocare il personale», aggiunge un esperto. Se ministro dell'Economia è per esempio il tecnico Fabrizio Saccomanni, niente paura, vice-ministri sono Luigi Casero e Stefano Fassina, responsabili economici del Pdl e del Pd. Lo stesso meccanismo vale per il ministero degli Esteri: qui il ministro è la fuori-quota Emma Bonino, i vice-ministri sono tre, oltre a Marta Dassù c'è il responsabile Esteri del Pd Lapo Pistelli, amico da sempre del premier e rivale a Firenze di Matteo Renzi, e Bruno Archi, ex consigliere diplomatico di Silvio Berlusconi e deputato del Pdl, che ha testimoniato al processo Ruby sul colloquio tra il Cavaliere e il presidente egiziano Mubarak sulla famosa parentela della ragazza marocchina. Una carriera tutta berlusconiana, impreziosita, si fa per dire, da un incarico da consigliere diplomatico dell'allora presidente del Senato Renato Schifani. Un'ascesa così strabiliante che ha indignato perfino i più cinici funzionari della Farnesina.

L'IRA DI D'ALEMA
Una meraviglia, l'uovo di Colombo: una cosa a me, una a te. E pazienza se gli esclusi dal Patto Letta-Alfano hanno cominciato a spazientirsi. Specie quando negli ultimi giorni promozioni e spostamenti sono entrati nel vivo. In profondità: dal piano politico al controllo degli apparati dello Stato, servizi di intelligence e forze dell'ordine.

La prima casella pesante è stata assegnata a un nome del Pd: il senatore calabrese Marco Minniti è diventato sottosegretario con delega ai servizi segreti al posto dell'uscente Gianni De Gennaro. Una nomina che di certo non ha contribuito a migliorare l'umor nero di D'Alema, fino a poche settimane fa presidente del Comitato parlamentare di controllo sui servizi, il Copasir. Perché, certo, Minniti è stato a lungo un fedelissimo dell'ex premier, ma poi c'è stata una rottura sanguinosa, culminata con il passaggio di Minniti nelle file avversarie, nel gruppo di Walter Veltroni.

La divisione degli incarichi Pd-Pdl non riguarda solo gli apparati dello Stato, ma anche i dipartimenti di diretta dipendenza della presidenza del Consiglio. Per esempio il Dipe, il dipartimento per le politiche economiche di Palazzo Chigi, e il Cipe, il comitato interministeriale per la Programmazione economica, la struttura che indirizza miliardi di risorse pubbliche per investimenti e infrastrutture (autostrade, ferrovie, linee metropolitane, porti): 155 delibere per 20 miliardi di euro solo nel 2012.

Alla guida del Dipe è stato nominato un uomo del premier Letta, Ferdinando Ferrara. Immediata la richiesta del Pdl: allora il segretario del Cipe spetta a noi. Nel governo Monti era il ministro Fabrizio Barca, il nome che avanza per sostituirlo è il sottosegretario alle Infrastrutture Rocco Girlanda. Coordinatore umbro del Pdl, Girlanda è un esperto del ramo, per così dire: fino a un anno fa è stato responsabile delle relazioni istituzionali del gruppo Barbetti, azienda umbra leader nelle cementerie, proprietaria, fino a poche settimane fa, del giornale più diffuso della regione, "Il Corriere dell'Umbria": amministratore delegato, sempre Girlanda. In più, è molto legato al coordinatore nazionale del Pdl Denis Verdini, personaggio potente ma inquieto, perché il triplo incarico di Alfano, vice di Letta, ministro e segretario rischia di escluderlo dal tavolo che conta. Girlanda è un suo protetto, come dimostrano anche le intercettazioni delle indagini per i grandi appalti del 2009, in cui Verdini interveniva con l'imprenditore-amico Riccardo Fusi per sponsorizzare l'azienda dell'amico interessata alla commessa per la superstrada tra Umbria e Marche, il Quadrilatero. Una tempesta di chiamate. Richieste sempre più insistenti. «Riccardo? Sono qui con Rocco che mi domanda... l'avete risolti i problemi o no?», chiedeva Verdini. Alla fine non se ne farà nulla e Girlanda non è mai stato indagato. Ma la sua nomina a sottosegretario alle Infrastrutture, fortemente voluta da Verdini, ha suscitato imbarazzo nel governo per il conflitto di interessi, neppure mascherato.

AVANZANO LE TRUPPE
L'assalto è appena cominciato. Il ministro dell'Economia Saccomanni si è intestato, finora, il più spettacolare spoil system del governo Letta: via in una settimana il Ragioniere centrale dello Stato Mario Canzio, sostituito da Daniele Franco, provieniente come Saccomanni dalla Banca d'Italia; e via il potentissimo Vincenzo Fortunato, il più longevo (e pagato) capo di gabinetto della storia repubblicana, rimpiazzato dal funzionario della Camera Daniele Cabras, figlio dell'ex senatore della sinistra Dc Paolo, che aveva assistito Rosy Bindi al ministero della Famiglia nel governo Prodi. Ma ora Saccomanni è atteso alla prova delle promozioni ai vertici di Finmeccanica, la principale impresa italiana controllata al 32 per cento dal Tesoro.

E che la bagarre sia in pieno svolgimento lo prova lo scarno comunicato con cui il ministero di via XX Settembre ha annunciato la sera del 28 maggio il rinvio delle nomine nel Consiglio di amministrazione per «definire procedure trasparenti e criteri generali di valutazione volti ad assicurare la qualità professionale e la competenza tecnica dei prescelti». Come dire che la situazione si sta facendo pesante: per decidere i sostituti dell'ex presidente e amministratore delegato Giuseppe Orsi, arrestato il 12 febbraio con l'accusa di tangenti per l'aggiudicazione di 12 elicotteri Agusta in India, e dell'ex consigliere Franco Bonferroni è in corsa un peso massimo come Gianni De Gennaro, lasciato fuori dal governo e per la prima volta da decenni (ma chissà quanto provvisoriamente) senza incarichi, che può vantare un fronte trasversale di sostenitori, da Gianni Letta a Massimo D'Alema: le larghe intese fatte persona. Ma anche il capo dell'Ansaldo Energia Giuseppe Zampini, che ha di recente portato alla guida della controllata Ansaldo Nucleare Umberto Minopoli, ex figiciotto della generazione D'Alema (spedito dal capo in Unione sovietica insieme all'attuale presidente dell'Emila Vasco Errani a un campus con i coetanei del Pcus), poi capo della segreteria di Pier Luigi Bersani al ministero dello Sviluppo economico, tenace sostenitore dell'ex segretario del Pd alle primarie contro Matteo Renzi.

Zampini, alla fine, potrebbe approdare alla carica di amministratore delegato se le deleghe saranno di nuovo divise tra un ad di gestione finanziaria, come l'attuale Alessandro Pansa, e uno attento alle politiche industriali, lo stesso Zampini. Una divisione congeniale al ticket di Palazzo Chigi: Pansa è portato da Letta, Zampini da Alfano. Sempre che il risiko delle poltrone non finisca su un unico tabellone, in arrivo ci sono anche la presidenza delle Ferrovie al posto di Lamberto Cardia (amministratore delegato resterà Mauro Moretti che era già sicuro ministro del mai-nato governo Bersani), la Sogin (società per lo smantellamento del nucleare), la Sace (oggi presieduta dall'ex ambasciatore in Usa Gianni Castellaneta, anche lui in corsa per la presidenza di Finmeccanica) e Invitalia. Nel governo si parla di un comitato di saggi che dovrebbe vigilare sulle candidature per garantire merito e competenza: ma anche per accentrare a Palazzo Chigi il tourbillon dei pretendenti, ridimensionando il peso del ministero del Tesoro che negli ultimi anni l'ha fatta da padrone.

REBUS VIALE MAZZINI
Il paradosso è che in questo clima di generale pacificazione, manco a farlo apposta, è iniziata la fibrillazione in viale Mazzini, alla Rai, dove pure le intese larghe o larghissime, il consociativismo tra i partiti, la lottizzazione sono la regola da sempre. «Calma, non è cambiato il mondo, è cambiato il presidente del Consiglio», avrebbe detto la coppia al vertice Anna Maria Tarantola e Luigi Gubitosi quando, all'indomani della fiducia al nuovo governo, i segnali della politica si sono fatti sentire di nuovo molto pimpanti. Il commento, sensato, del settimo piano di viale Mazzini non vale però per la Rai dove da sempre un cambio di inquilino a Palazzo Chigi equivale a un'era geologica, un passaggio epocale. Infatti l'atmosfera attorno al cavallo morente si è rapidamente surriscaldata. Ecco l'ex ministro Paolo Romani chiedere un incontro con il dg Rai, udienza concessa, ma Romani a sorpresa si presenta accompagnato da un altro ex collega, Maurizio Gasparri.

Ed ecco, sul versante opposto, i consiglieri designati dal Pd Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi astenersi, prassi inusuale, si vota sì o no, sul bilancio 2012, e dichiarare guerra ai colleghi del Pdl. «Il mondo politico abbia il coraggio di affrontare i nodi della legge Gasparri e del conflitto di interessi, che ammorbano la vita del servizio pubblico», hanno scritto in una nota. «E il centrosinistra schieri nella comissione parlamentare di vigilanza sulla Rai i giocatori più ricchi d'esperienza, più competenti e politicamente autorevoli». Il gioco si fa duro, entrino in campo i duri.

Per ora, però, a spedire nella mischia uno squadrone è stato il Pdl. Nella commissione parlamentare sulla Rai saranno designati Romani, Gasparri, Paolo Bonaiuti, i capigruppo Renato Brunetta e Renato Schifani, più il senatore Augusto Minzolini, in attesa di reintegro insieme all'ex direttore di Rai Uno Mauro Mazza (si studia la possibile poltrona, forse la direzione di Raisport). E nel cda Rai, a sorpresa, è ritornato il decano Antonio Verro: eletto senatore e rispedito di gran corsa in viale Mazzini, nonostante la contrarietà personale e l'evidente disappunto dei consiglieri Pdl Guglielmo Rositani e Antonio Pilati (l'imprenditrice Luisa Todini, è data anche in quota Vedrò, il think tank fondato dal premier Letta: ospite degli appuntamenti in Trentino, amica del giovane Enrico e in piena sintonia con la pax lettian-alfaniana). L'ordine per Verro di mollare Palazzo Madama per presidiare il cda è arrivato da Arcore, Verro ne fa un vanto anzi si è già promosso capogruppo, innervosendo non poco gli altri consiglieri in quota Pdl. Il suo arrivo è il segno che il Cavaliere anche su viale Mazzini vuole essere pronto al doppio scenario: sostenere il governo ma prepararsi alle elezioni in tempi rapidi.

Dopo il primo turno di elezioni amministrative, interpretato da Letta e da Alfano come il primo successo del governo, visto il flop clamoroso del Movimento 5 Stelle, è tornata irresistibile la tentazione di tornare rapidamente alle urne tra gli esclusi del nuovo equilibrio politico. Nel Pd tra i dalemiani lasciati lontani dalle posizioni che contano, ma anche nell'area che fa capo a Renzi, c'è la voglia di regolare i conti con i grillini, approfittare della loro debacle e recuperare i milioni di voti di nuovo in cerca di casa politica. Ma uguale aspirazione coltivano i falchi del Pdl, Verdini in testa, determinanti già nell'inverno del 2012, quando Alfano sperava di candidarsi premier e invece fu costretto a farsi da parte dal ritorno in pista di Berlusconi.

DUE GEMELLI A PALAZZO CHIGI
Una storia ricostruita velenosamente da Luigi Bisignani nel libro-intervista con Paolo Madron appena uscito ("L'uomo che sussurra ai potenti"): «Con Schifani, Alfano lavorava a una nuova alleanza senza Berlusconi. Cominciò a farlo nel momento in cui per Berlusconi iniziava la fase più aspra di un calvario politico giudiziario che sembra non finire mai. E in più stringendo un asse con Roberto Maroni, che da ex potente ministro dell'Interno, dopo aver fatto fuori Umberto Bossi, preconizzava la morte civile del Cavaliere e l'investitura di Alfano come nuovo leader».

Nell'ultima riunione dei gruppi parlamentari tra Alfano e Verdini sono volate parole di fuoco, l'accusa di alto tradimento del Capo resta sospesa. Ma intanto il delfino di Silvio, il ministro-segretario-vicepremier ha trovato un nuovo e ben più potente amico: il gemello di Palazzo Chigi Letta. E farà leva sul rapporto privilegiato con il quasi-coetaneo Enrico per costruirsi una solida dote di potere da portare con sé in vista della stagione post-berlusconiana, quando arriverà. Intanto nei prossimi mesi andranno a scadenza le poltrone più ambite, le cassaforti del sistema, Terna e Poste, soprattutto Enel ed Eni: di un eventuale avvicendamento di Fulvio Conti e dell'immortale Paolo Scaroni, però, si parlerà solo nella primavera 2014. E a quel punto si vedrà se il ticket Letta-Alfano avrà superato la tempesta e sarà destinato a durare tutta la legislatura. Una sola coalizione, doppia occupazione, doppia spartizione.

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