È da settant'anni che l'Italia vive di grandi intese. E l'accordo di tutti con tutti - con avversari veri, apparenti, immaginari - fa ormai parte del carattere nazionale. Così pensa Sergio Luzzatto, storico brillante, qualche volta controverso, mai banale. "L'Espresso" è andato a sentirlo a casa sua, una gradevole abitazione a Ferney-Voltaire, vista su Monte Bianco a due passi dal castello in cui ha vissuto il grande filosofo che al paesino ha dato il suo nome. Sono passati appunto sette decenni da quando l'8 settembre 1943 il maresciallo Badoglio annunciava l'armistizio con le forze angloamericane. Il re fuggiva da Roma; i fascisti cercavano la protezione dei cugini nazisti; la meglio gioventù saliva in montagna. Da allora le interpretazioni di come quegli eventi abbiano pesato sulla storia patria si sono sprecate. Particolarmente in voga è quella che vi riconosce l'inizio di una guerra civile, mai cessata, ma diventata "a bassa intensità".
«Guerra civile tra il 1943 e il 1945, c'è stata, eccome», dice Luzzatto, «ma la storia di una guerra civile a bassa intensità di cui saremmo oggi partecipi e testimoni è una bufala. Serve a soddisfare interessi politici contrapposti. Quelli dei moderati che vogliono far passare gli avversari di Berlusconi per dei pericolosi sovversivi; e quelli degli estremisti che sognano una "nuova resistenza". Semmai possiamo definire quello che è successo come la madre delle larghe intese», spiega. «Però, da storico, devo fare una precisazione. C'è una specificità del contesto dell'8 settembre: la guerra mondiale; il cambio di regime e quindi un nuovo patto costituzionale; e una guerra civile vera».
Ha parlato della continuità tra l'8 settembre e oggi. C'è però chi, da anni, sostiene la tesi per cui quel giorno morì la patria.
«Muore la patria fascista. Gli antifascisti la loro patria la perdono nel giugno 1940 quando cade la Francia, pugnalata alle spalle dal fascismo italiano. È la Francia della Rivoluzione, del Fronte popolare, terra d'asilo. L'8 settembre rinasce la patria degli antifascisti, quindi. Anche se le occorrono circa nove mesi di gestazione:dalla salita in montagna dei primi giovani ribelli fino al consolidamento dei partiti politici e della Resistenza militare».
Pochi mesi dopo l'8 settembre c'è la svolta di Salerno. Togliatti torna dall'Urss: accetta la monarchia, riconosce il governo Badoglio. Chiede ai comunisti di sospendere ogni velleità rivoluzionaria o repubblicana. Un comportamento strano se paragonato a Lenin che tornato a San Pietroburgo nel 1917 in una situazione analoga chiama a rovesciare il regime borghese. Togliatti agisce solo per volontà di Stalin o c'è una ragione intrinseca?
«Togliatti manca dall'Italia da 18 anni ed è meglio preparato ad affrontare le questioni mondiali di quanto siano i compagni che hanno fatto antifascismo all'interno del Paese. Ma attenzione: la svolta di Salerno segna una delega alle istanze sovranazionali dei problemi nazionali. Da 70 anni, l'Italia, per un limite virtuoso della sua classe dirigente, compie le sue scelte facendosi guidare da altri. Da Togliatti e De Gasperi fino a Monti, i nostri leader hanno preferito un ruolo da gestori di linee politiche che vengono da fuori. E mai nella storia repubblicana abbiamo avuto autentiche crisi riguardanti questioni internazionali».
Togliatti diventa il vice di Badoglio, un personaggio che ha usato i gas in Etiopia e che fu tra i firmatari nel 1938 del Manifesto della razza.
«Togliatti è un realista e un fine politico. Penso che vedesse lucidamente quante Italie erano da conciliare: il Sud, il Centro, il Nord; diverse da mille punti di vista, compreso il rapporto con l'istituzione monarchica, con il movimento operaio, con le élites borghesi. Contro i guastafeste, gli azionisti con la loro coerenza morale che implicava la rivoluzione, indica la via del compromesso, delle larghe intese».
Il leader democristiano è De Gasperi. Il riconoscimento reciproco tra lui e Togliatti è conseguenza della sfiducia negli italiani? Sono due ex esiliati. Togliatti in Urss, De Gasperi in Vaticano, dove faceva il bibliotecario.
«Sono due uomini fatti per capirsi, non solo per eccesso di Realpolitk ma perché cresciuti in due scuole dove si sono abituati a vedere l'Italia nel contesto mondiale. Giocano però anche le origini trentine, cioè austro-ungariche, di De Gasperi: era consapevole di quante anime possa avere un Paese».
Nel suo celebre libro del 1991 Claudio Pavone parla della "moralità nella Resistenza". In un altro del 1966, Giorgio Bocca usa parole come: vergogna, dignità, tradimento, minoranza. Una minoranza che prova vergogna e lotta per la dignità...
«I comunisti sapevano cosa volevano fare. Gli azionisti invece agivano soprattutto per protesta valoriale. Il loro era, come si è detto, un "antifascismo esistenziale". Erano come degli ospiti venuti a cena ma che si aspetta che se ne vadano».
Nel 1946, dopo la proclamazione della Repubblica arriva l'amnistia di Togliatti.
«Al di là degli elementi congiunturali (le prigioni erano piene) l'amnistia è fondamentale. Perché rende possibile l'interpretazione della guerra civile come uno scontro in cui ambedue i campi avevano commesso delle nefandezze. E omette non solo la quantità di queste nefandezze, ma anche la loro qualità. Per i partigiani il ricorso alla violenza è un doloroso strumento per arrivare a una società democratica. Non c'è una banda Carità tra i partigiani. Per i nazifascisti coincide con il progetto di società. Ma l'amnistia corrisponde alla percezione diffusa che gli italiani hanno avuto degli anni della guerra: il loro cuore batteva per gli alleati non per la Resistenza. Ecco un altro ingrediente delle larghe intese: l'idea (corretta) che l'Italia sia stata liberata dagli Alleati più che dai partigiani. E anche per questo la politica estera non diventa mai un elemeno di divisione. Del resto i comunisti, sotto sotto, si sentono meglio in Occidente che con l'Urss, fino alla famosa intervista di Berlinguer in cui confessa a metà anni Settanta di sentirsi protetto dall'ombrello della Nato».
Anche nel linguaggio i comunisti assomigliavano ai democristiani?
«Rimando a "L'Orologio " di Carlo Levi, alle pagine in cui da pittore descrive, senza farne i nomi, De Gasperi, Togliatti e, per contrasto, Parri. C'è una larga intesa basata sull'assenza del corpo e del carisma nella politica. Anche la lingua parlata doveva essere ovattata, indiretta, accademica; in contrasto con quella di Mussolini. Romperà questo patto Craxi, ma senza costrutto».
Nel 1956 Togliatti ha difficoltà a digerire l'ondata della destalinizzazione. Appoggia l'intervento sovietico in Ungheria. È sbagliata l'ipotesi per cui lo fa non per l'amore dell'Urss, ma perché ha paura della destabilizzazione? Vuole l'Italia saldamente in Occidente, per cui niente scossoni.
«A conferma di questa ipotesi sarebbe un fatto speculare: nel '89 il democristiano Andreotti non vuole la riunificazione della Germania. Preferisce lo status quo. I comunisti, nella storia postbellica, sono più inclusi che esclusi. Tanto che hanno potuto esercitare l'egemonia culturale. C'è stato sì il periodo centrista, dal 1948 al 1960. Però le larghe intese hanno funzionato nella vita sociale. È la Dc che realizza il programma socialdemocratico; costruisce il Welfare State. E comunque la Dc e il Pci si assomigliano. Non solo nella struttura e nella propaganda ma anche per quanto riguarda i consumi e i costumi. Finito il centrismo si arriva al centro-sinistra e alle "convergenze parallele" di Moro: il trionfo delle larghe intese».
Poi arriva il Sessantotto.
«Una generazione fortunata, cresciuta nel benessere, si ribella contro le larghe intese. Non capiscono il buono della socialdemocrazia. Ma operano una cesura sulla questione dei diritti civili: aprono la via alla stagione referendaria. Che il Pci vive malissimo. Asseconda i referendum ma non li vuole. Quella stagione ha visto come prodotto collaterale il terrorismo e le stragi dello Stato (che creano un lutto condiviso e quindi una forma di legame sociale). Ma è la stagione, soprattutto, delle pratiche di emancipazione civile. Il Pci ne trae conclusioni sbagliate. Il compromesso storico, che Berlinguer teorizza nel 1973, diventa una pratica di spartizione delle poltrone: Rai, ospedali, enti locali. È il trionfo della partitocrazia; fino a Mani pulite».
E così arriviamo al ventennio berlusconiano.
«Che non segna discontinuità. Finiscono i partiti storici di massa; ma si consolidano nuove forme di partitocrazia: lo svuotamento dell'istituto referendario, il sabotaggio delle riforme istituzionali, il consociativismo nei servizi pubblici, la tutela della casta».
E Giorgio Napolitano?
« L'Italia ha avuto la fortuna di avere (da Pertini in poi, con l'eccezione di Cossiga) presidenti della Repubblica all'altezza del ruolo. Napolitano esprime un'idea di patria. che è importante come garanzia identitaria, in un Paese che ha un'identità nazionale debole. Lui era ragazzo a Napoli, quando cominciava tutta questa storia. Ha vissuto con aplomb la presunta esclusione dei comunisti dal potere, perché sapeva che era limitata e non del tutto vera. Così oggi, incarna nel migliore dei modi la storia della Repubblica delle larghe intese».
Cultura
6 settembre, 2013«È stato l'8 settembre del 1943 che cominciarono la alleanze trasversali. Che durano ancora oggi. Nascoste o palesi che siano». La tesi dello storico Sergio Luzzato
'Le larghe intese? Hanno 70 anni'
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