Una serie di fenomeni in passato pressoché sconosciuti stanno alterando la composizione e la stratificazione sociale ed economica dell’Italia, rendendo sempre più ampia, nel nostro paese, la quota delle famiglie e delle persone povere o a rischio povertà. Tra questi fenomeni, nuovo, ma sempre più diffuso, è il caso delle famiglie a doppia precarietà generazionale. Si tratta delle situazioni in cui la precarietà tocca l’intero asse generazionale ‘genitori-figli’, rendendo impossibile qualsiasi forma di sostegno economico dei primi verso i secondi o viceversa e minando le fondamenta di quello che è per antonomasia l’ammortizzatore sociale del Belpaese: la famiglia.
Prima dell’insorgere della crisi, più del 50% degli italiani al di sotto dei 34 anni viveva con i propri genitori, per motivi, oltre che di ordine culturale, soprattutto economici: non avevano un lavoro o se lo avevano, le condizioni contrattuali e i redditi erano assolutamente precari. A questa situazione di debolezza e di prolungata dipendenza dei giovani adulti - su cui tanto si è scritto già dalla metà degli anni Ottanta quando per la prima volta si parlò di ‘famiglia lunga’ - faceva però da contraltare la centralità dei redditi e delle proprietà dei genitori, capaci e disponibili a sostenere i figli, non solo nei livelli di consumo ricorrenti, ma persino con una serie di risparmi e di investimenti (per lo più) immobiliari necessari per rendere meno indolore la transizione alla vita adulta: un gruzzoletto di partenza per l’acquisto della casa, il budget per affrontare le spese di matrimonio, una serie di risparmi per fronteggiare la precarietà lavorativa dei figli, pesanti iniezioni di liquidità all’arrivo del primo nipote hanno a lungo rappresentato la strategia familiare italiana con cui sopperire alle pesanti lacune del welfare in termini di politiche a favore dei giovani.
Tuttavia l’inasprirsi e il perdurare della crisi economica si è tradotto in una pesantissima emorragia di posti di lavoro, tra cui molti ritenuti sicuri fino a pochi anni addietro, e che ha visto colpire di improvvisa precarietà soprattutto le fasce di età compresa tra i 45 e i 60 anni. Mentre la disoccupazione giovanile di mese in mese cresce a livelli record, la precarietà abbraccia le fasce di età medie e medio-alte della popolazione, quasi del tutto impreparate ad affrontare il rischio disoccupazione, fragilmente e inaspettatamente esposte ai vari effetti della crisi: mobilità e cassa integrazione, licenziamenti e riduzioni di salario, chiusure e fallimenti di imprese private - soprattutto nel settore manifatturiero. Senza contare la miriade di piccoli e medi imprenditori, costretti a gestire un’epocale mutamento delle proprie condizioni di vita, passando dal rischio imprenditoriale alla precarietà economica. Secondo il Rapporto Eurispes del 2013, l’anno scorso oltre il 65% degli imprenditori italiani erano sfiduciati e dichiaravano di temere fortemente per la vita della propria impresa. In particolare, il popolo delle partita IVA è la categoria sociale che più ha dovuto rinunciare alla possibilità di risparmiare nel corso degli ultimi tre anni.
Il dato importante è che la lunga durata della crisi economica e la collegata percezione di impoverimento delle opportunità lavorative ha trasformato nel concreto la concezione e la condizione di precarietà. Se prima della crisi la precarietà era percepita soprattutto come effetto di una condizione contrattuale atipica, un quasi naturale segno dei nuovi tempi che universalmente caratterizzava l’entrata giovanile nel mondo del lavoro e che pertanto veniva generalmente ascritta ai giovani e, con qualche patema, ai giovani-adulti (contratti a tempo determinato, collaborazioni a progetto o occasionali, lavori interinali, partite IVA che celavano di situazioni di lavoro dipendente); se negli scorsi anni quindi la precarietà era lo specchio dei percorsi accidentati di entrata e uscita dal mercato del lavoro della prima generazione che si faceva adulta nell’era del lavoro flessibile, ora gli effetti della crisi hanno determinato un allargamento della percezione della precarietà, inghiottendo anche coloro che potevano contare su un contratto a tempo indeterminato: gli adulti, gli over 40, i padri e la madri di famiglia. Dunque alla precarietà dei figli si è aggiunta quella dei genitori.
Lo spettro della doppia precarietà intergenerazionale è molto ampio e riguarda diversi tipi di situazioni familiari: famiglie a doppia o tripla precarietà; famiglie nucleari a solidarietà indebolita, interrotta o rovesciata; famiglie estese o in via di unificazione per far fronte alla disoccupazione che ha colpito i figli o i genitori.
Le prime sono quelle famiglie in cui figli under 40 convivono con i propri genitori under 65 e in cui la precarietà lavorativa o la disoccupazione colpisce sia i primi che i secondi, accrescendo le posizioni precarie in famiglia: un padre e un figlio; una madre e due figli; il padre in mobilità, la madre disoccupata, il figlio precario. In queste famiglie, negli anni precedenti, l’incerto futuro lavorativo dei figli era controbilanciato dalle garanzie occupazionali di cui godevano i genitori (o almeno uno di loro, solitamente il padre). Finché la condizione occupazionale degli anziani ha retto, la precarietà lavorativa dei giovani veniva gestita nella prospettiva di utilizzare i risparmi dei genitori come una sorta di assicurazione a garanzia della vulnerabilità dei figli. La stabilità economica della famiglia di origine funzionava come accumulatore di risparmi e di progetti per l’emancipazione di quella che doveva formarsi, nella prospettiva che i figli riuscissero a lasciare definitivamente la casa dei genitori per formare una nuova famiglia. La crisi economica e la diffusione della precarietà, reale o percepita, tra le fasce più adulte della popolazione, non solo ha bloccato la dinamica caratteristica di questo ‘welfare familista’ tutto italiano – trasferimenti di risorse dalle generazioni mature ai giovani per sopperire alle incertezze economiche di quest’ultimi – ma in molti casi ha ribaltato il peso degli aggravi familiari e delle responsabilità economiche, trasferendoli dai genitori ai figli.
I dati Eurostat (Labour Force Survey) certificano che, dal 2008 al 2012, in Italia non solo è fortemente diminuita l’occupazione, ma al tempo stesso è aumenta la quota di lavori a termine. Soprattutto, la crescita dei lavori a termine ha cominciato a riguardare in modo consistente le fasce centrali di età (40-50enni) e misura leggermente inferiore quelle in prossimità dell’età pensionabile (over 50). La crescita in queste fasce di età è dovuta alla perdita del lavoro a tempo determinato cui fa seguito la disoccupazione e in alcuni casi un nuovo lavoro, ma a termine.
Tasso di occupazione e incidenza degli occupati a tempo determinato nell’Unione europea – Anni 2008-2012 (variazioni in punti percentuali)

Fonte: Eurostat, Labour Force Survey 2013
In Italia, si sa, quando un figlio o una figlia mette su casa, i legami e i sostegni familiari non si indeboliscono, piuttosto si rafforzano. In vista dell’agognata autonomia abitativa, prima e dopo il matrimonio, per diversi anni gli aiuti economici da una generazione all’altra si infittiscono, assumendo diverse forme: trasferimenti diretti e indiretti, prestiti, garanzie, regali di varia natura, sostegni di vario tipo nei momenti di difficoltà. Non è raro che tra famiglia di origine e nuovo nucleo coniugale si formi un unico budget, pur a fronte di residenze separate. Ora, però, in una periodo (lungo) di profonda della crisi occupazionale, non è raro che i figli appena resisi semi-indipendenti, appena spostati o appena lasciata la casa paterna per andare a vivere da soli, debbano rientrare nel nucleo di origine perché i genitori non sono più in grado di far fronte al flusso di aiuti economici su cui si erano basate le premesse della nuova vita autonoma oppure, peggio, debbano rientrare perché ora sono caduti nella precarietà economica anche i genitori.
Anche quando non si verifica il ritorno di una figlia o di un figlio presso la casa dei genitori, le situazioni della famiglie nucleari a solidarietà indebolita, interrotta o rovesciata rappresentano l’indicatore più evidente dell’erodersi del ceto medio italiano cui si accompagnano forme inedite di risparmio: per far fronte alla precarietà lavorativa ed economica, secondo i dati Eurispes nel 2013, il 44,1% degli italiani è andato più spesso a pranzo/cena da parenti/genitori, il 91,8% ha limitato le uscite fuori casa (dal 73,1% registrato nel 2012), il 28,1% si è rivolto ad un ‘Compro oro’, con una vera e propria impennata rispetto all’8,5% del 2012.
L’Istat sottolinea che nel 2012 per chi ha conservato l’impiego si è ulteriormente accentuata la polarizzazione tra tipologie contrattuali: continuano a diminuire gli occupati a tempo pieno e indeterminato e ad aumentare quelli a tempo parziale, a tempo determinato e con contratti di collaborazione. La crescita dell’occupazione part-time ha riguardato solo la componente involontaria - coloro cioè che preferirebbero invece lavorare a full-time - e si è dimezzata rispetto all’anno precedente la percentuale di dipendenti che sono passati dal part-time al tempo pieno. La crescita dei lavoratori a tempo determinato e dei collaboratori si accompagna ad una diminuzione della probabilità di transizione verso lavori standard e ad un aumento delle transizioni verso la disoccupazione. Incide molto, sulla dimensione del fenomeno delle famiglie a solidarietà indebolita, interrotta o rovesciata il numero di donne, soprattutto del Mezzogiorno, che cercano un lavoro per sostenere, a seconda della loro età, la caduta di reddito familiare che segue alla perdita di lavoro o all’entrata in Cassa integrazione del coniuge, del padre o del figlio.
Le famiglie estese o in via di unificazione sono quei nuclei domestici coniugali da cui, precedentemente alla crisi, era uscito un parente che conviveva con la coppia e che ora è costretto a rientrarvi a causa della propria precarietà economica, cui si aggiunge quella di uno o entrambi i coniugi. Si tratta di un fenomeno che è difficile cogliere dal punto di vista statistico, poiché le indagini sulle strutture familiari fanno riferimento ai dati anagrafici che registrano soltanto le variazioni di residenza ufficiali. In questo caso, si tratta, invece, di soluzioni e strategie abitative che le persone non ufficializzano: una vedova in difficoltà economica che va a vivere dai figli e nipoti; un 45enne separato che perde il lavoro e cerca ospitalità a casa della sorella sposata e con figli che a sua volta con il rischio di perdere il lavoro; una coppia di 50enni, di cui uno precario, l’altra casalinga, che ospitano un nipote in cerca di lavoro in una città diversa da quella di origine.
Anche se è possibile ipotizzare una crescita consistente delle famiglie di quest’ultimo tipo, la diffusione della precarietà tra le coorti più anziane della forza lavoro sta sgretolando soprattutto l’asse privilegiato della solidarietà intergenerazionale italiana, ovvero l’asse genitori-figli. Se nel 2006 le famiglie con almeno due componenti con un lavoro non standard rappresentavano - tenendo fuori dal computo le famiglie di un solo componente - appena il 9% delle famiglie italiane, questa quota nel 2012 è salita al 16%. Nel corso dell’ultimo anno si stima che il fenomeno sia ulteriormente aumentato, particolarmente diffuso tra le famiglie residenti nel Mezzogiorno e nelle periferie delle grandi città, tanto al Sud, che al Centro e al Nord. La precarietà era un fenomeno giovanile, ora non più.
Soprattutto, la precarietà economica – quella non per forza collegata al tipo di contratto – sta crescendo vertiginosamente tra i lavoratori senior, tra gli artigiani, tra i lavoratori autonomi, tra i piccoli imprenditori, schiacciati, quest’ultimi, dall’inasprirsi delle condizioni di credito adottate dalle banche italiane. A novembre i prestiti al settore privato hanno registrato una contrazione su base annua del 4,3% (-3,7% a ottobre), mentre nello specifico quelli dirette a imprese non finanziarie, sempre su base annua, sono diminuiti del 6% (-4,9% a ottobre). Il credit crunch ha un effetto particolarmente deleterio per il sistema manifatturiero italiano, poiché molte piccole imprese capitanate da imprenditori cinquantenni e in buone condizioni economiche non riescono ad ottenere crediti e sono costrette a chiudere a causa di difficoltà finanziarie che negli anni passati venivano facilmente superate grazie ai prestiti concessi dalle banche.
L’Istat, nel Rapporto 2013 - La situazione del Paese - rileva come nel 2012 la riduzione degli ingressi nel mondo del lavoro, la perdita del lavoro dei giovani e le nuove regole di età pensionabile hanno determinato una ricomposizione per età dell’occupazione verso le fasce più anziane, ma al tempo stesso come nelle fasce più anziane siano notevolmente cresciute le situazioni di precarietà occupazionale ed economica. Solo per fare un esempio, nel caso dei cassaintegrati over 50 - il 38% dei tutti i cassaintegrati nel 2012 e ben oltre il 40% nel 2013 - le incertezze sul futuro si sono amplificate. Non solo la durata media di permanenza si è allungata, ma è anche aumentata la probabilità di transitare dalla Cassa integrazione verso la disoccupazione. In tre anni la quota di coloro che come cassaintegrati permangono tali dopo un anno cresce e scende di molto quella di coloro che ritornano a lavorare. Infatti, il transito dalla condizione di cassaintegrati a quella di inattivi o disoccupati è cresciuto di oltre 8 punti percentuali dal 2012 al 2013 per gli ultra 49enni. La situazione del Mezzogiorno appare particolarmente critica: nelle regioni del Sud si registra una quota più elevata sia di permanenze in Cassa integrazione (43,0%), sia di over 50enni che a distanza di un anno non sono più occupati. Al contempo è salito anche il tasso di disoccupazione degli over 50, ed è aumentata la quota di disoccupati di lunga durata.
Alle difficoltà economiche, al congelamento del futuro può poi accompagnarsi il manifestarsi di situazioni di disagio psichico, come evidenziano da diversi punti di vista i servizi sociali, i sindacalisti, le reti territoriali e le iniziative associative e del terzo settore. Nel welfare familista, la doppia precarietà intergenerazionale può essere uno shock pesante. Possono insorgere conflitti generati dalle tensioni che si instaurano nel rapporto figli-genitori, in quanto i primi vorrebbero rendersi autonomi ma non possono, i secondi, pur consapevoli delle difficoltà che i figli incontrano nell'intraprendere i propri percorsi, vorrebbero vederli realizzati al più presto, prima che la crisi possa colpire tutta la famiglia.