Meno imprese a conduzione familiare e più mercato. Capitale umano, spinta hi-tech. Sostegno delle banche. Sono gli elementi con cui le imprese, dal Veneto al Friuli, danno la scossa alla crisi e cercano nuove strade
All’Università Ca’ Foscari di Venezia, Stefano Micelli insegna “International Management”. La cattedra si chiama così anche perché il corso si tiene in inglese. Viene quindi naturale, a Micelli – che è anche direttore scientifico della Fondazione Nord Est – sottolineare quanto sia importante l’internazionalizzazione, per risollevare le sorti dell’economia triveneta. «Insieme alla bravura degli studenti e alla grande spinta all’innovazione, radicare la presenza all’estero in forma strutturata è una delle frecce che il Nord Est può scoccare col suo arco», sostiene il professore. Secondo il quale, non basta più soltanto esportare: «Ci vuole una presenza effettiva, con la garanzia del servizio e la vendita attraverso stabili filiali estere».
l dati relativi alla crescita del Nord-Est
Gli fa eco Marco Fortis, presidente della Fondazione Edison che, insieme alla Gea, ha appena presentato i dati sulle esportazioni dei 99 distretti industriali italiani, e invita a non insistere sulle dimensioni delle imprese del Nord Est. «Il dibattito sulla necessità di aggregarsi è un po’ tirato per i capelli. Qualcosa accade, la Confindustria spinge sulle reti d’impresa, si stringono parecchi accordi consortili, però non vedo una grande mutazione genetica secondo la quale le piccole aziende si riuniscono, si aggregano. Per le ditte davvero piccole, sotto i 20 addetti, non c’è spazio per questo tipo di aggregazioni. Impiegherebbero meno tempo a cambiare del tutto la propria attività, prima di fondersi. Mentre quelle più strutturate, dai 50 ai 250 dipendenti, mediamente hanno ottime performance e non avvertono questa esigenza alle fusioni che molti economisti “sentono” a tavolino», sostiene Fortis evidenziando come ci siano centinaia di ditte che non arrivano a 30 addetti ma in compenso esportano in oltre 30 mercati.
L'apertura ai mercati esteri: dal Triveneto al mondo
«Non possiamo pensare di fare come la Germania, dove i primi dieci gruppi esportatori rappresentano l’80 per cento dell’export tedesco: con i primi 10 italiani arriviamo al 5 per cento. Certo, sarebbe bene che il numero di esportatori strabili crescesse, avendo in testa una adeguata strategia e con un personale adeguato. Il ministero dello Sviluppo economico, di concerto con gli enti locali, la Sace, le organizzazioni imprenditoriali, sta girando l’Italia con un road show per incontrare le piccole aziende, per sensibilizzarle, per esempio, sull’importanza di avere all’interno un export manager. In alcuni casi un dirigente del genere viene “prestato” per un certo periodo ed è già capitato che il piccolo imprenditore, verificandone sul campo l’utilità, lo abbia assunto. La conferma arriva dal campo. Racconta Federico Geremia, titolare del San Marco Group di Marcon Venezia (220 dipendenti e 70 milioni di ricavi, per un quarto oltre confine): «Gli imprenditori veneti sono stati dei grandi venditori, capaci di stare all’estero per settimane con la valigetta in mano, magari senza sapere l’inglese. Oggi se non sei strutturato non reggi, non basta più la forza di volontà e lavorare venti ore al giorno». Anche il presidente dei giovani imprenditori veneti della Confindustria, il padovano Enrico Berto, mette sul piatto il tema dell’organizzazione: «I clienti di fascia alta dei Paesi emergenti dell’Asia e del Sud America sono affascinati dal Made in Italy e possono dare grandi soddisfazioni. Ma sono anche molto distanti e per raggiungerli ci vogliono una struttura solida e delle dimensioni minime di un certo tipo».
La crescita nel settore agroalimentare [[ge:espresso:plus:articoli:1.183742:image:https://espresso.repubblica.it/polopoly_fs/1.183742.1412951900!/httpImage/image.jpg_gen/derivatives/articolo_480/image.jpg]]
L’azienda dei Berto si chiama Berto’s, ha un centinaio di dipendenti e realizza oltre l’80 per cento dei 21 milioni di euro di fatturato vendendo all’estero le sue cucine per ristoranti e alberghi. Indossando il cappello confindustriale per parlare delle mutazioni in atto, Berto dice che per irrobustire le società anche g li imprenditori veneti si sono aperti alla finanza: «Meno famiglia, più mercato, insomma», dice sorridendo. In Borsa, dove contando tutti i segmenti del mercato azionario, le aziende del triveneto sono una ventina, tutta questa apertura alla finanza faticano a intravederla. Tra l’altro, il vero colosso del Nord Est è sì quotato in Borsa, ma a Wall Street e si chiama Luxottica. Del fatto che il made in Italy piaccia parecchio oltre confine ne è convinto anche Dennis Bordin, che i profili e i battiscopa della sua Progress Profiles di Asolo, Treviso, li vende sempre di più all’estero: «Il nostro export è in costante ascesa e quest’anno varrà tra il 35 e il 40 per cento dei ricavi, che supereranno i 25 milioni. Abbiamo investito 11 milioni di euro nel nuovo stabilimento, assumiamo 5-10 persone l’anno e siamo orgogliosi di fare tutto in Italia, anche se gli stati confinanti, Cina, Romania, Polonia, Turchia stendono i tappeti tossi a chi sposta da loro le fabbriche».
Aggiunge Daniele Marini, professore di Economia a Padova e direttore di Community Media Research, quanto sia fondamentale, per le aziende più piccole «riuscire a entrare nella catena globale del valore, nella filiera, essere fornitrici di altre imprese, magari di medie dimensioni però leader nel proprio campo. Come a dire: rimango piccolo ma se rimango dentro questo circuito riesco comunque a sopravvivere perché le altre mi aprono i mercati esteri.
Nella prima metà del 2014 – quando ancora non si sentiva l’effetto della guerra di sanzioni ed embarghi tra Unione europea e Russia – i principali distretti industriali del Nord Est (tenendo conto anche di quelli dell’Emilia Romagna) hanno esportato per quasi 17 miliardi di euro, un miliardo di euro in più rispetto al 2013. Il più pesante di tutti e 99, sotto l’aspetto dei numeri, è quello dell’occhialeria del Cadore trainato dal colosso Luxottica, che ha venduto oltre confine per 1,30 miliardi, contro l’1,16 dell’anno scorso.
Ma sono cresciute le macchine industriali di Padova, Treviso e Vicenza, i vini del Trentino e della Valpolicella, le calzature di Montebelluna e del Brenta padovano e veneziano, gli apparecchi domestici del trevigiano, i mobili di Livenza, il tessile-abbigliamento vicentino.
Il manifatturiero triveneto che tiene botta e ha un futuro è quello che ha saputo cambiare pelle, magari spinto dalla selezione provocata dalla crisi, è l’opinione di Daniele Marini, di Community Media Research: «Il sistema manifatturiero di questo territorio era storicamente votato alla produzione di beni finali, con molti terzisti che lavoravano per un committente che in genere vendeva prodotti fatti e finiti. Ora bisognerebbe sempre più spostarsi sui beni capitali, sulla produzione di macchine, di software, quindi sulla parte di produzione poco aperta alla concorrenza di paesi come la Cina o l’India», sostiene Marini.
Micelli della Fondazione Nord Est sottolinea il fenomeno, in aumento, delle sperimentazioni delle imprese che si cimentano con quello che definisce nuovo manifatturiero, dove si cerca di integrare il “saper fare” con la comunicazione, la tecnologia, la cultura, la capacità di personalizzazione. «Sono certo che il successo di alcune iniziative metterà in moto quei meccanismi emulativi che spingeranno tanti altri, oggi magari alla finestra in attesa di capire la strada da imboccare». Cita due esempi, Micelli. La “Fabbrica Lenta” di Giovanni Bonotto, «imprenditore globale di Marostica che ha riscoperto i tessuti per il lusso con un raffinatissimo progetto che sposa artigianalitòà e arte contemporanea», e la HSL di Trento, che stampa componenti per l’industria in 3D «e oggi è uno dei leader mondiali nella creazione di auto one-off, pezzi unici su misura, realizzati con il digital manufacturing».
Stessa zona ma business più tradizionale, quello di Mauro Franzoni, patron della Levico Acque, che imbottiglia acqua minerale esclusivamente in vetro a rendere, ci tiene a precisare, e ha investito, insieme agli enti locali della zona, oltre 2 milioni di euro per ammodernare lo storico stabilimento dell’acqua che sgorga dalla fonte dell’Alta Valsugana. «Il mercato della minerale è in calo ma noi più che sui volumi puntiamo sulla redditività», spiega Franzoni, sottolineando che la sua acqua la si trova nei supermercati solo in Trentino, mentre nel resto d’Italia è distribuita porta a porta. Il Triveneto vale l’80 per cento delle vendite della Levico. E se lassù a 1.600 metri, l’ansia da export è una sensazione sconosciuta, Geremia del Gruppo San Marco, che le sue vernici le vende un po’ ovunque, compresi Nigeria e Kenya, ricorda la telefonata del suo cliente di Erbil, la città curda al centro della zona più drammaticamente calda del pianeta, qualche settimana fa: «Mi sa che per il prossimo ordine dovrò aspettare un po’.