La raffineria di Gela, che sembrava destinata alla chiusura, produrrà non più benzina tradizionale ma diesel derivato da olio vegetale

Dal petrolio al diesel vegetale. La raffineria siciliana di Gela, in provincia di Caltanissetta, un colosso industriale che per anni ha dato lavoro a oltre duemila persone, sembrava destinata alla chiusura a causa del crollo dei consumi di benzina e gasolio. Lo aveva fatto intendere in estate l’Eni, la società proprietaria degli impianti, scatenando il panico fra i lavoratori. Giovedì 6 novembre l’azienda ha invece annunciato che la chiusura verrà evitata. Il piano prevede diverse novità, tra cui quella di impiegare una parte dei dipendenti nell’estrazione di idrocarburi al largo della costa di Licata.

L’aspetto più innovativo dell’accordo, controfirmato da sindacati e governo, è però un altro: a Gela non si produrrà più benzina tradizionale, ma diesel derivato da olio vegetale. È più o meno la stessa decisione che l’Eni ha preso l’anno scorso per la raffineria di Porto Marghera (Venezia), il primo sito italiano ad abbandonare la lavorazione del greggio in favore dell’olio di palma made in Indonesia. Che sia il modo per salvare il settore della raffinazione? La questione è rilevante. Il comparto impiega, tra diretti e indiretti, circa 100 mila lavoratori, e una buona parte di loro rischia il posto, dato che la capacità produttiva è quasi il doppio della domanda attuale di carburanti. Non a caso, dei quindici impianti disseminati sullo Stivale nel 2008, tre hanno già fermato la produzione: Tamoil a Cremona, TotalErg a Roma, Ies a Mantova. Schiacciate dalla frenata della domanda, dall’apertura di impianti più efficienti in Asia e dal boom dello shale oil negli Stati Uniti, un po’ tutte le raffinerie d’Europa sono entrate in crisi. Quelle attive oggi sono un’ottantina, erano cento sei anni fa.

L’Italia non fa eccezione. L’Eni - titolare di cinque dei dodici impianti rimasti in funzione - sostiene che negli ultimi cinque anni il costo della raffinazione è stato salato: 6 miliardi di euro di perdite. L’amministratore delegato, Claudio Descalzi,  ha promesso di portare in pareggio il settore al massimo entro la fine dell’anno prossimo dimezzando la capacità produttiva, e finora ha tagliato solo un terzo del totale. Una situazione che tiene in allarme i sindacati, spaventati dalla possibilità che il cane a sei zampe, chiudendo buona parte dei suoi impianti, lasci senza lavoro migliaia di persone. «Le soluzioni adottate per Venezia e Gela servono solo per attutire gli effetti della deindustrializzazione, non bastano per rivitalizzare il settore e dare lavoro a tutti i suoi occupati», dice Pietro De Simone, direttore generale dell’Unione Petrolifera, l’associazione che rappresenta i produttori di carburante tradizionale. In effetti i numeri parlano chiaro.

Nel 2013 in Italia sono stati consumati 30 milioni di tonnellate di benzina e gasolio. La legge, derivata dalle norme europee, impone che entro il 2020 il 10 per cento dei carburanti dovrà essere di origine biologica (quest’anno era il 4,5 per cento). Significa che, nell’ipotesi di consumi invariati, per soddisfare la domanda ci sarà bisogno di produrre circa tre milioni di tonnellate di biocarburanti all’anno. La capacità attuale è già di circa due milioni, cui si aggiungeranno a regime 1,2 milioni di tonnellate provenienti dalle raffinerie Eni di Gela e Porto Marghera. Difficile dunque pensare che altri impianti possano essere salvati dalla benzina biologica.

A meno che l’Italia non diventi un grande esportatore. O che l’economia  ricominci a correre, riportando gli automobilisti a fare un pieno dietro l’altro per macinare chilometri come ai tempi d’oro.
 

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