
È ancora presto per dirlo ad alta voce ma il piccolo Paese del Nord Africa che ha acceso la miccia della Primavera araba in quel lontano 14 gennaio 2011 è anche la prima nazione ad avere raggiunto libere elezioni, un primissimo ricambio tra partiti e una sana libertà di stampa. «Quello che stiamo vivendo è un momento storico paragonabile alla caduta del muro di Berlino nel 1989 o al dopo-Franco della Spagna», spiega Marco Errebi, un imprenditore tunisino impegnato nel settore artistico che è rientrato in patria dopo diversi anni all’estero: «Questo è il momento di esserci. Un giorno si parlerà della Tunisia come del modello per uno Stato islamico».
A un centinaio di chilometri a Nord della capitale, oltre il golfo di Bizerte, sul promontorio spoglio di Cap Engela, tra sabbie lucenti e residui di spazzatura sbattuti dal mare contro le rocce selvagge, la giovane ministra del Turismo Amel Karboul inaugura «il punto più a Nord d’Africa» come futura destinazione turistica di un Paese che deve il 7 per cento del prodotto interno lordo alle migliaia di visitatori soprattutto europei che prima della rivoluzione si riversavano sulle sue coste alla ricerca di un paradiso low cost.
Adesso, dopo quattro anni di incertezza politica, è tempo di riportarli in paradiso, ma questa volte di offrire loro qualcosa di più attraente del solito villaggio palme e buffet tutto incluso. «Hotel di charme, eco turismo, rovine romane e piccole oasi di bellezza: dovrebbe essere questa la nostra nuova offerta», spiega Karboul, «perché cerchiamo un turismo di maggior pregio che ovviamente richiede servizi migliori e una scelta maggiore».
Un prodotto meno standardizzato e più europeo, e magari anche benefico per le popolazioni rurali ancora tristemente povere, è esattamente quello che Leila Derouiche Rafrafi e il marito belga stanno provando a fare con il loro nuovo agriturismo in stile andaluso costruito nei pressi di Bizerte. A guardarsi attorno mancano i casali in pietra, i cipressi toscani e perfino le colline rivestite di girasoli umbri, ma la zona è decisamente agricola. In fondo la Tunisia è stata storicamente il granaio di Roma e le distese verdi che si srotolano ai bordi della statale lo ricordano. E se non si trovano le vestigia di centinaia di anni di storia convulsa sparpagliate ovunque sul Vecchio Continente, a compensare è l’energia nuova di chi tenta di fare la Storia oggi, tra pane fatto in casa, datteri freschi, rovine romane una volta dimenticate e adesso celebrate e, soprattutto, giovani ragazzi con i pochi mezzi e il grande entusiasmo di chi riparte da zero.
Tra loro c’è Miriam Toumi Bagana, una giovane mamma di 29 anni, a cui la rivoluzione ha involontariamente regalato una nuova vita. «Con due bimbi piccoli e un’economia a picco in questi ultimi anni è stato impossibile trovare lavoro nonostante fossi laureata», spiega davanti ai cesti di bomboniere da lei creati e realizzati. «Poi un’amica mi ha indirizzato verso Enda, un’associazione per il microcredito, e ho potuto mettermi in proprio».
Crea oggetti per i riti della religione musulmana: le bomboniere da regalare agli invitati alla cerimonia di circoncisione per i maschietti, il kit per il bagno rituale delle future spose, i cuscini porta fedi nuziali e anche gli elaborati cesti per i regali che l’uomo deve fare alla donna il giorno del matrimonio. «Ho ripagato il primo prestito e con il secondo appena ricevuto sto aprendo un negozio tutto mio», sorride mentre spiega che lei lavora anche per i riti cristiani (battesimi, comunioni, matrimoni, perfino Natale) e si dice pronta a spedire in tutta Europa a prezzi concorrenziali.
È il miracolo del micro credito che anche da queste parti non cessa di far valere le sue ragioni. «Basta poco per creare un’imprenditrice», spiega Essma Ben Hamida, responsabile del centro Enda inter-arabe, e attivista storica per i diritti delle donne. «La rivoluzione tunisina è soprattutto una rivoluzione femminile perché è il modo in cui è trattata la donna la vera cartina di tornasole del livello di democrazia di uno Stato islamico». E difatti Habib Bourguiba, il primo leader della Tunisia indipendente, di fatto una sorta di despota illuminato poi spodestato da Zine Ben Ali, prima di morire ha fatto incidere sul suo mausoleo come unico epitaffio in sua memoria “colui che ha liberato la donna”.
Che la relazione tra democrazia e ruolo della donna araba sia fondamentale ne è convinto anche Habib Mellahk, anziano professore di lettere all’università di Manouba, un campus tutto erba, palme e basse costruzioni bianche alla periferia di Tunisi. «Venga a trovarmi che così vede il centro della resistenza contro i salafiti!», aveva intimato al telefono. Sulla porta a vetri all’ingresso della facoltà campeggia un poster a colori che promuove l’incontro con Michelle Perrot, l’autrice di “Donne ribelli”, un libro sulla rivoluzione francese con chiari richiami di attualità. Qui, poco più di un anno fa, quando il governo era nelle mani ultraconservatrici di Ennhada, un gruppetto di donne salafite aveva preteso di entrare in classe con il velo integrale ma la dirigenza della facoltà si era opposta dichiarando che la libertà educativa ha un valore superiore a quella di abbigliamento e che parte integrante dell’insegnamento è la comunicazione non verbale. Dopo qualche mese di aggressioni anche fisiche al preside e a Mellahk, il tribunale tunisino dette ragione alla facoltà e le salafite non si sono più fatte vedere.
«Noi liberali stiamo portando avanti il progetto di modernizzazione della Tunisia iniziato da Bourghiba e interrotto negli ultimi anni», spiega seduto alla caffetteria dell’università, una tovaglietta di plastica sotto la tazzina del caffè, «ma per adesso la nostra è solo una mezza vittoria perché non abbiamo raggiunto la maggioranza assoluta in parlamento e dovremo scendere a compromessi con Ennahda. Per loro la donna è un simbolo. Vogliono piegare l’Islam alle loro convinzioni. Le loro deputate in parlamento sono completamente subalterne».
«Verissimo!», sottolinea tra un fritto di mare e un bicchiere di bianco in uno dei ristoranti meglio frequentati della capitale, Zohra Driss, neoeletta deputata tra le fila di Nidaa Tounes: «Noi e loro non abbiamo niente da dirci. Stanno lì, sedute in silenzio. Sono state catapultate improvvisamente dalla cucina alla televisione, senza alcuna preparazione, senza alcuna conoscenza», si sfoga lei, impeccabilmente truccata, figlia cinquantenne di una delle più potenti famiglie della città costiera di Sousse, ereditiera, insieme a due fratelli, di un impero alberghiero, e da sempre attiva nella vita politica della sua regione.
Sono in tanti come Driss nel partito liberale: ricchi, cosmopoliti e laici. Tutti più o meno coinvolti con l’amministrazione precedente, senza la quale non avrebbero potuto gestire i propri affari. Ed è per questo che oppositori ed islamisti non cessano di denunciare il ritorno del “vecchio regime”, termine che riporta immediatamente alle tristi sorti dell’Egitto di oggi. Vero è che la prossima sfida politica, quella per le presidenziali, tra il settantenne Mohamed Moncef Marzouki, un attivista per i diritti umani sotto Ben Ali, rivelatosi poi molto sensibile alla causa islamista, e il quasi novantenne Beji Caid Essebsi, in politica fin dai tempi di Bourghiba, fondatore due anni fa di Nidaa Tounes, non odora certo di nuovo.
Soprattutto, la dice lunga sull’assenza di nuove figure politiche nella Tunisia post-regime e spiega il perché gran parte della popolazione (in media molto giovane), dopo quattro lunghi anni di attivismo politico non andrà a votare pur sperando in un lungo periodo di stabilità a partire dall’anno prossimo. «Non lo dice mai nessuno, ma alla fine noi società civile tunisina, noi irrinunciabili attivisti, noi baluardo della democrazia non siamo mica molti e ci conosciamo tutti», spiega Anissa Benhassine, professoressa di Economia pubblica all’università di Tunisi (vedi intervista nel box a fianco), mentre guida tra le strade trafficate della metropoli araba: «La maggioranza della popolazione ha un livello di educazione abbastanza basso e non vede l’ora che tutto si calmi e l’economia si riprenda. Soprattutto i più giovani».
Tra di loro c’è Hissam, un tunisino trentacinquenne che gestisce la sezione italiana del call center di Vista Print, una società americana con oltre 400 dipendenti solo in Tunisia, che produce stampe digitali. Sposato, due figlie e una moglie che lavora nella stessa azienda, anche lei un passato in Italia, Hissam porta una barba ben tenuta e ha convinto la moglie a indossare il velo «come simbolo di identità tunisina!. La sua “conversione” è arrivata dopo un decennio in Italia da clandestino passato a cercare fortuna tra banchi al mercato, una girandola di ragazze italiane, storie di droga, discoteche e perfino un anno da mediatore culturale nel centro di accoglienza di Caltanissetta dove era finito per essere espulso. Poi il rientro volontario in Patria. «Questo è un posto che adesso offre molte più opportunità dell’Italia. Qui si fa carriera, ci sono prospettive di miglioramento. I salari sono un po’ più bassi che da voi ma lo è anche il costo della vita», spiega nella saletta del relax, tv, frigo e micronde, messa a disposizone degli impiegati per l’ora di pausa. «Ho un amico italiano che si sta informando per sposare una tunisina e trasferirsi definitivamente qui. Per chi è preparato ci sono possibilità. Ci sono oltre 700 aziende italiane. Invece da lui, in Sicilia, non c’è lavoro. Non c’è nulla».