«Sì, la nostra ambizione è questa. E lo faremo con la Rete, i robot, l’intelligenza artificiale». Parla il cofondatore di Google

A 41 anni Larry Page, cofondatore e amministratore delegato di Google, si concede il lusso di pensare in grande. Dopo una recente riorganizzazione aziendale, la responsabilità di gran parte delle attività operative dell’azienda è stata affidata a un suo vice, il che gli permette di dedicarsi ai suoi disegni più ambiziosi. Detta altrimenti, Google è pronta a investire i proventi derivanti dal suo monopolio sui motori di ricerca per assicurarsi una quota del progresso tecnologico del prossimo secolo. E Page, guardando alle possibilità che si stanno aprendo per i prossimi cento anni, si dice convinto che «riusciremo probabilmente a risolvere molti dei problemi dell’umanità».

Dossier
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23/12/2014
Certo, sembra ormai lontana l’ondata di “idealismo” che caratterizzava i primordi di Google, la sua missione originaria (“don’t be evil”: non essere cattivo) e l’ambizione di «rendere il mondo un luogo migliore». Oggi il potere e la ricchezza di quest’azienda suscitano risentimenti e reazioni negative, specialmente in Europa, dove la compagnia è sotto inchiesta per il modo i cui esercita il suo monopolio sulla ricerca in Internet. Page, tuttavia, non arretra di un centimetro dai declamati «principi altruistici» né dalle smisurate ambizioni nutrite in tempi meno sospetti insieme al cofondatore Sergey Brin: «La finalità sociale è sempre il nostro obiettivo primario. Abbiamo sempre cercato di affermare questo principio con Google. Semmai, non ci siamo riusciti come avremmo voluto», dice.

Anche la missione di «organizzare il mondo dell’informazione e renderlo universalmente accessibile», non è abbastanza ampia per quello che Page ha ora in mente. Il suo obiettivo è quello di utilizzare il denaro derivante dalle entrate pubblicitarie di Google per rafforzarne le posizioni nei settori più promettenti del futuro, da quello delle biotecnologie a quello della robotica. Alla domanda se questo significa che Google deve prefiggersi una nuova missione, risponde: «Penso proprio di sì», ma non dice ancora quale sarà: «Ci stiamo riflettendo».

Quando ci siamo incontrati nel suo quartier generale alla Silicon Valley, Page ha mostrato un atteggiamento timido, lontano da quella sicurezza di sé che contraddistingue di solito la maggior parte dei capi d’azienda. Indubbiamente consapevole della responsabilità aggiuntiva derivante dal gestire un’azienda con 55 mila dipendenti che è sempre più sotto i riflettori, sceglie inoltre le sue parole con più cautela di un tempo. Gli obiettivi, tuttavia, sono molto ambiziosi, anche grazie a una liquidità che continua a crescere e oggi supera i 62 miliardi di dollari: «Ci ritroviamo in un territorio un po’ inesplorato», dice. «Stiamo cercando di saggiarlo. Come possiamo usare tutte queste risorse ed esercitare un’influenza più positiva sul mondo?», dice.

Già: per come la vede lui, tutto è una questione di ambizione, una merce che semplicemente scarseggia oggi nel mondo. Gran parte del denaro che affluisce nel settore high tech viene attratto dalla promessa di facili profitti derivanti dall’ultimo boom dei consumi: e secondo Page solo una cinquantina di investitori nel mondo stanno cogliendo le potenzialità delle vere tecnologie innovative che possono trasformare la vita della maggior parte delle persone sulla terra. Ad esempio, dopo una recente visita a una start-up che lavora sulla fusione nucleare, il cofondatore di Google è rimasto entusiasta dalla possibilità di una rivoluzione che consenta di produrre energia a basso costo. Un’altra start-up lo ha sorpreso per avergli dimostrato la capacità di “leggere” nella mente di una persona a cui vengono sottoposte immagini visive. Poi ci sono le cose su cui in azienda si sta già lavorando: Google X, il laboratorio interno, ha tra i suoi progetti i Google Glass e l’auto senza conducente.

Oggi, inoltre, Page sta sperimentando la creazione di unità aziendali autonome guidate da leader semi-indipendenti incaricati di costruire nuove grandi imprese sotto l’ala di Google. Mountain View ha rivelato che queste includeranno la divisione Nest, che si occupa di domotica, e una nuova unità che raggruppa i suoi investimenti nell’accesso a Internet e nell’energia. Alcune delle grandi scommesse di Google avvengono in settori che Page definisce “di frangia” , cioè che finora non hanno ricevuto un’attenzione sufficiente. Quali esempi, Page cita le malattie che affliggono gli anziani, un settore quest’ultimo di cui sua moglie si è occupata alla Stanford University. Oggi, attraverso una consociata che opera nel settore delle biotecnologie, la Calico, Google ha in programma investimenti per centinaia di milioni di dollari in questo settore.

Tuttavia, rispetto ai primi periodi entusiasmanti, quando qualsiasi iniziativa spericolata veniva accolta da un pubblico adorante, l’impeto del cambiamento tecnologico ha cominciato a suscitare paura. Perché? «Penso che la gente ne veda il lato distruttivo ma non colga in realtà quello positivo», sostiene Page. «Non lo vede come un qualcosa che può cambiare la vita. Credo che il problema sia che molti non si sentono partecipi di questa trasformazione».

Page è convinto che questa trasformazione però sia già in atto. I rapidi progressi nel campo dell’intelligenza artificiale, per esempio, faranno sì che molti lavori saranno svolti da computer o da robot. In questa prospettiva, «nove persone su dieci, se ne avessero la possibilità, smetterebbero il lavoro che stanno facendo». E che dire di quelle che potrebbero rimpiangere di aver perso il loro lavoro? «L’idea che tutti debbano lavorare in condizioni di schiavitù per fare qualcosa di poco efficiente allo scopo di mantenere il posto di lavoro è una cosa che mi pare priva di senso», risponde Page. Secondo il quale sta per arrivare una deflazione massiccia: «Anche se molti posti di lavoro andranno distrutti, in breve tempo è probabile che ciò sia compensato dal costo decrescente delle cose di cui abbiamo bisogno». Le nuove tecnologie, sostiene, renderanno le imprese non il 10 per cento, ma 10 volte più efficienti. A condizione che portino a una riduzione dei prezzi: «Penso che le cose che desideriamo per vivere meglio potrebbero diventare molto, ma molto più economiche». Il crollo dei prezzi delle case potrebbe rientrare anch’esso in questo quadro. Ancor più della tecnologia, aiuterebbero i cambiamenti politici necessari a rendere i terreni più facilmente disponibili per l’edificazione: «Non c’è alcun motivo per cui un alloggio medio a Palo Alto debba costare un milione di dollari, anziché 50 mila».

Per molti, l’idea di cambiamenti così radicali della propria condizione economica può apparire illusoria o addirittura paurosa. La prospettiva che milioni di posti di lavoro diventino obsoleti e i prezzi dei beni di uso quotidiano entrino in una spirale deflazionistica sembra tutt’altro che tranquillizzante. Ma secondo Page in un sistema capitalista l’eliminazione dell’inefficienza attraverso la tecnologia dev’essere perseguita fino alla sua logica conclusione: «Non puoi sperare che non accada, accadrà e basta. L’evoluzione dell’economia determinerà fenomeni molto sorprendenti. Con i computer in grado di svolgere un numero sempre maggiore di compiti, cambierà il nostro modo di concepire il lavoro. Non c’è modo di evitarlo».

Quando si tratta di affrontare i problemi politici, Page (come molti tecnocrati) appare subito contrariato da questioni che sfuggono al rigore proprio della tecnologia: «Credo che queste cose suscitino una grande angoscia che dovremmo superare», dice, anche se avanza ben poche idee concrete su come farlo. «Come organizzare le nostre democrazie è un problema: se guardiamo al livello di soddisfazione negli Stati Uniti sta scendendo, non salendo. E questo è abbastanza preoccupante». Quanto alla debolezza del Vecchio Continente nel sostenere imprenditoria e tecnologia si dice convinto che «molti dei problemi in Europa derivino proprio da questo». Per chiudere, Page preferisce però tornare su Google. E dice: «La cosa che stiamo facendo è fornire capitale paziente, a lungo termine». Del resto lui è in un’età in cui può ancora permettersi di guardare lontano. Ma viste le sue ambizioni quasi sconfinate, la pazienza è forse un’altra questione.

Traduzione di Mario Baccianini
Copyright Financial Times - l’Espresso