Intervista con la scrittrice napoletana sul suo ultimo romanzo 'Tempo di imparare'. Dove racconta di una madre e del rapporto con il figlio disabile. Ma anche - in controluce - di una Napoli da cui non vuole fuggire. E del significato della sofferenza per ciascuno di noi

Trasformare il dolore in letteratura, con la forza della sola nuda parola è cosa da grandi scrittori. Ed è questa la cifra di Valeria Parrella, quarantenne, napoletana, che dopo tanti bei libri e testi teatrali, ha da poco pubblicato “Tempo da imparare” (Einaudi).

Scritto in prima persona, il romanzo racconta il rapporto tra una madre e un figlio, con sullo sfondo la figura in apparenza laterale, in realtà centrale, del compagno della mamma. Il figlio, Arturo, nato prematuro, è un “disabile”, per usare il gergo dell’ufficialità burocratica. La vicenda è in parte autobiografica. Parrella ha un bambino che necessita costanti cure e attenzioni, ma si tratta di un vero romanzo perché il libro non è una cronaca delle sensazioni della mamma, non è quindi un memoir (genere molto in voga); narra invece di innamoramento e di capacità di imparare dall’altro. In altre parole, siamo di fronte a una narrazione che parla della nostra condizione umana; della capacità di esprimere il desiderio e trovare la felicità. Detto così, si potrebbe sospettare che Parrella sia una donna pervasa di forti sentimenti cattolici: il sacrificio come prova d’amore e strada maestra verso la realizzazione personale. E invece no. In questo, come in altri suoi libri (“Spazio bianco”, “Antigone”, per fare due soli esempi) è assente ogni orizzonte trascendentale. La vita è qui e ora. E le decisioni dei protagonisti vengono prese per motivi che non hanno niente a che vedere con la fede in Dio o con l’idea dell’aldilà e della giusta ricompensa. E il Male come se non esistesse.
La copertina di 'Tempo di imparare' (Einaudi) di Valeria Parrella

Lei, durante un lungo incontro in casa sua, bella, luminosa, all’ultimo piano di un palazzo délabré nel cuore, anzi nel “ventre di Napoli”, a due passi dal Duomo e dal sangue di San Gennaro, di questa assenza (o forse presenza di altri valori) dice: «Sono cresciuta in una casa di comunisti. Da noi Dio non esisteva. E neanche il Male, inteso come presenza metafisica». Riflette: «Sei sempre tu a decidere cosa fare. Certo, puoi agire come Faust: vendere l’anima a Mefisto, ma lo fai perché così hai voluto». Poi fa un esempio opposto; sua sorella, che invece ha scelto di lavorare con i Medici senza frontiere a Lumumbashi, in Congo.

Non è facile fare un discorso così lontano da ogni idea di religione in un Paese in cui perfino un laico come Benedetto Croce sosteneva che «non possiamo non dirci cristiani»; e in una città pervasa di simboli e manifestazioni di cattolicesimo. Parrella, una donna minuta, estremamente conscia del valore del proprio scrivere e altrettanto gentile, sorride. Richiama, ancora una volta, l’insegnamento ricevuto in casa (e in questo senso la sua generazione è davvero diversa da quella precedente, che invece ai valori di famiglia si ribellava con ogni mezzo). Dice: «Mio papà, professore di filosofia e storia, ama molto i greci. Mia madre era una botanica. Da loro ho ereditato l’amore per la natura e per l’Atene del quinto secolo».

Stiamo parlando della città di Pericle, Socrate, Sofocle: del buon governo, del pensiero critico e del teatro. «Per me», confessa, «la vita è qui e ora. Va presa per quel che è». Precisa: «Nella vita bisogna starci»; e si sente una lontana eco di Heidegger, nemico giurato di metafisica, innamorato dei greci e alla ricerca di autenticità. E l’amore, in questa visione del mondo cosa è? La risposta arriva lenta, parola dopo parola (e infatti Parrella, nei suoi libri è attenta in un modo ossessivo, quasi maniacale a ogni parola e alla sintassi: risultato ne è una prosa trasparente, in apparenza semplice, in realtà complessa, perché mette in gioco molteplici registri della lingua). «Mi chiede dell’amore? È quando penso a mio figlio. L’amore si manifesta quando senti che non c’è possibilità che l’altro non esista; è una comunione esclusiva, un rapporto totale e in cui ognuno modifica se stesso sotto l’impulso dell’altro». Cita il “Simposio” di Platone: «Amore è un sentimento di appagamento; quando la presenza dell’amato ti fa sentire intero». Il figlio, bello, affettuoso, sta nella stanza attigua a giocare con il suo iPad; accanto a lui il compagno di Valeria.

In “Tempo di imparare” si parla molto del mare. Se ne sente il rumore, se ne racconta il colore e il profumo. Il mare come elemento primordiale? «Mi chiede se il mare è una metafora della maternità? No. La maternità la vivo, e bene, minuto per minuto». Si avvicina alla finestra e dice: «In questo romanzo io non scrivo mai la parola Napoli. E la mia protagonista non guarda mai il mare; quando finalmente ci arriva, volta lo sguardo all’indietro. Il mare è una possibilità inespressa». L’associazione è inevitabile: “Il mare non bagna Napoli” di Annamaria Ortese, un romanzo dolente sulla città partenopea dopo la guerra. Parrella, raccoglie la sfida. «Io e Ortese sappiamo che il mare c’è, ma non lo usiamo, perché questa città non lo sa usare», dice.

Napoli dunque come metafora? Stiamo parlando di una città di fortissima valenza simbolica: per generazioni di italiani (l’ultima, quella del Sessantotto) Napoli era una città che covava nel suo ventre, una perenne ribellione, e quindi una possibilità di riscatto non solo necessario, ma indispensabile per rendere vero il sogno dell’emancipazione degli umili e degli oppressi. Parrella taglia corto: «No. Io, nei miei libri, racconto Napoli per narrare la condizione umana. Le metafore sono solo cattiva letteratura. Gli scrittori non parlano dei luoghi, parlano della vita». E fa il paragone con Agota Kristof, ungherese, naturalizzata svizzera, scomparsa tre anni fa, e che scriveva in francese. «Nei suoi romanzi, dove le parole sono centellinate, le frasi perfette, il tutto ridotto all’essenziale, senza orpello», dice, «non ci sono nomi, né dei luoghi né spesso dei protagonisti, eppure ci sono le emozioni e le vite di ognuno di noi». Il paragone con un’autrice di culto è esagerato? In “tempo di imparare”, Parrella rischia il massimo, quando dice che il bambino Arturo (allusione a “L’isola di Arturo” della Morante) ha sul braccio tatuato il numero della legge che lo classifica come “disabile”: il rimando a Primo Levi è immediato. Lei annuisce quando sente dire che, del resto, anche Levi raccontava Auschwitz non come luogo simbolo della Shoah, ma per parlare del dolore di ognuno di noi.

Ma poi non si esime dall’affrontare il significato particolare della sua città. «Scrivere di Napoli direttamente, senza filtri di letteratura, non si può. Farlo comporterebbe cadere nel ridondante, nel simbolico». Intanto è l’ora di pranzo, e mentre si mangia il sauté di vongole e polipetti al pomodoro (vedi box), la scrittrice spiega alcune cose fondamentali. La prima: da Napoli molti fuggono. Lei invece fuori da Napoli non potrebbe e non vorrebbe vivere («Un giorno un’operaia della Cirio mi disse: se ve ne andate via voi che avete i mezzi culturali per cambiare le cose, chi rimane qui?»). Eppoi, «Napoli è ormai una città verticale. Ai piani alti, perfino nei Quartieri Spagnoli; i benestanti, gli artisti, la borghesia intellettuale. Ai piani bassi, i ragazzini su motorette senza casco, bacino di reclutamento della camorra». E anche: «È una città, che io definisco “agglutinata”, densa, dove a ogni ora della giornata e della notte c’è gente per strada. Tutto questo è materia per fare letteratura». Ma anche per impegno civile. «Con tre amiche abbiamo creato un Festival letterario che è la continuazione della Galassia Gutenberg che chiuse i battenti anni fa». I soldi sono dei privati. Poi è vicepresidente dell’Associazione Mah che si occupa dell’avviamento al lavoro delle persone con disabilità intellettive. Infine è impegnata nelle carceri. Ha scritto un manuale, tradotto in sei lingue, dei diritti dei detenuti. Spesso va nella prigione di Poggioreale a partecipare alle iniziative con le donne carcerate. «È un’esperienza importantissima parlare con loro», spiega, «perché il carcere è una soglia, varcata la quale si vede in prospettiva quella che è la nostra società. Da questo punto di vista, la prigione assomiglia a Lampedusa; un punto limite». Racconta: «Un giorno una donna detenuta mi ha parlato del figlio, nato prematuro e dislessico. Ecco, io mio figlio posso accompagnarlo dal logoterapista, lei no».

Continua parlando dei diritti umani sospesi nel carcere, e così si arriva a una sua pièce, “Antigone”, dove l’eroina greca assomiglia a Beppe Englaro: si batte per poter staccare la spina a chi è ridotto allo stato vegetale. Alla domanda se Antigone è anche oggi donna, risponde: «Sì, perché le donne rimangono escluse dai diritti». Si torna al fatto che fare buona letteratura significa contribuire a rendere migliore la società. E lei spiega che parlare del dolore non vuol dire mettere in vista la sofferenza, ma trovare un modo per renderla oggetto di riflessione e identificazione del lettore («Per parlare del corpo martoriato da interventi dei medici, racconto il corpo di Frida Kahlo»).

Ma non basta: rimane la politica vera. L’esempio da seguire è Antonio Gramsci: «l’uomo che sapeva che sarebbe stato imprigionato, ma è rimasto in Italia pronto a battersi e deciso a pagare il prezzo». Il maestro è Pietro Ingrao che diceva ai suoi compagni: «Tutte le vostre azioni devono essere regolate dal pensiero su che cosa è l’essere umano». Tra pochi mesi, alle europee voterà per Alexis Tsipras , «l’unico che parla di valori autentici e che è riuscito a fermare i nazisti di Alba dorata». E anche in questo Parrella è un po’ greca. Infatti, prima di congedarsi dice alla maniera degli antichi greci appunto, che sapevano quanto il fato non dovesse essere forzato: «La felicità significa saper agire ma anche rimanere attoniti rispetto alla variabilità della vita»

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