«Mio papà ha due cuori: la figlia o l’onore?... In questo momento dice che vuole la figlia, però dentro di lui c’è anche quell’altro fatto». È il 6 agosto 2011 e Maria Concetta Cacciola sta parlando al telefono con l’amica Emanuela. Si trova a Genova, in località segreta, e da qualche settimana sta collaborando con la giustizia. A casa, a Rosarno, ha lasciato tre figli, che le mancano terribilmente. Ma sa che se tornasse da loro rischierebbe la vita, perché ha infranto il codice dell’onore.
Che per il padre ha la stessa sacralità della vita di sua figlia. Maria Concetta ha poco più di trent’anni, è nata a Rosarno e la sua è una famiglia di ’ndrangheta. Il padre, Michele Cacciola, è cognato del boss Gregorio Bellocco e vanta trascorsi criminali di tutto rispetto. È stato più
volte in carcere e il figlio Giuseppe, fratello di Maria Concetta, segue con successo le sue orme. Ha collezionato denunce per mafia, usura, riciclaggio, traffico di armi, e si è fatto anche lui qualche soggiorno in galera.
Maria Concetta subisce fin da ragazzina il peso di regole rigide e soffocanti. Chiusa in casa, controllata a vista, conduce una vita da reclusa e vagheggia una libertà che le appare a portata di mano quando un ragazzo del paese, Salvatore Figliuzzi, comincia a corteggiarla. Lei ha tredici
anni ma per i genitori non ci sono problemi, basta che tutto avvenga secondo le regole: così, dopo l’immancabile fuitina, quando lei compie sedici anni vengono celebrate le nozze. Purtroppo però il sogno di felicità di questa sposa bambina viene presto scalzato dalla realtà. Non ama il marito e scopre che neppure lui ama lei: l’ha sposata solo per entrare nel circolo mafioso della sua famiglia.
Salvatore in effetti non è propriamente un marito amorevole e premuroso. Un giorno, durante una lite scoppiata per una sciocchezza, mette a tacere la moglie puntandole contro una pistola. Lei, spaventata a morte, cerca di trovare rifugio a casa dei genitori, lontana da quel mostro. Una volta al sicuro, racconta l’accaduto al padre sperando che rimproveri Salvatore. Ma la reazione di Michele Cacciola è di tutt’altro tenore: «Questo è il tuo matrimonio e te lo tieni per tutta la vita», sentenzia gelido.
A quest’uomo non interessa che la figlia stia male, che debba subire i soprusi di un marito violento. Per Michele Cacciola non è sul piano dei sentimenti che si affrontano questioni come queste. In quanto donna sposata, lei è tenuta a piegarsi alla volontà del suo uomo, che le piaccia o no. Nella Piana, una moglie deve conformarsi alle regole che rendono rispettabili agli occhi del mondo, e lui intende continuare a camminare per il paese a testa alta e non tollererà infrazioni da parte della figlia.
Maria Concetta obbedisce e si rassegna. Non è felice, né tantomeno libera. Ma tira avanti sorretta dall'amore profondo per i suoi tre bambini. Coronato il suo sogno di entrare in una famiglia di ’ndrangheta, Salvatore Figliuzzi è presto tenuto ad affrontare il suo primo esame da vero mafioso: il carcere. Nel 2005 è condannato a otto anni di reclusione nel processo
«Bosco Selvaggio», che spedisce in prigione Gregorio Bellocco e quasi una ventina di affiliati al suo clan.
Vegliare su Maria Concetta, sola e quindi esposta a pericolose tentazioni, spetta adesso ai maschi della sua famiglia. Che eseguono il compito con rigore ammirevole. Nelle lettere che scrive al marito detenuto, la giovane donna si lamenta dell’isolamento in cui è costretta a passare le sue giornate. Dice di non farcela più a crescere i figli da sola, di aver voglia di morire e di provare rabbia verso la vita, che non le riserva alcuna gioia. «Esco la mattina per andare a portare i figli a scuola... Non posso avere contatto con nessuno, a cosa mi serve la mia vita quando non posso avere contatto con nessuno?» si sfoga con il marito nel novembre 2007.
Nella stessa lettera, racconta a Salvatore di essere uscita proprio quella mattina per portare una medicina a un’amica. Non certo da sola, con lei c’era il figlio Alfonso, ma questo non è bastato a impedire che
il padre al rientro la rimproverasse severamente. È esasperata e scrive: «Come posso campare così se non posso nemmeno respirare... dimmi tu cosa ho fatto di male se non posso nemmeno avere uno sfogo, gli piace di vedermi disperata dalla mattina alla sera».
Per anni le cose vanno avanti nella solita monotonia paesana e con la morte nel cuore. La villetta in cui questa giovane madre vive coi figli è una cella confortevole ma soffocante. I genitori abitano al piano di sotto, la aiutano coi bambini, non le fanno mancare niente. Ma non le concedono il minimo spazio di libertà, punendola ogni volta che pensano abbia infranto le regole. È un’esistenza d’inferno, ma un giorno succede qualcosa che le restituisce la voglia di vivere.
Maria Concetta, grazie a Facebook, conosce un uomo di Reggio Calabria che lavora in Germania. Si innamora di lui. Per un paio di anni la famiglia Cacciola non sospetta nulla. Poi, nel giugno 2010, cominciano a piovere in casa lettere anonime che denunciano ai genitori la relazione clandestina di Maria Concetta, fino a quel momento solo platonica. A niente sono dunque serviti i controlli e le porte sbarrate: la figlia è riuscita comunque a coprirli di disonore e presto in paese lo sapranno tutti.
Il padre e il fratello sono furiosi. Chiedono a Maria Concetta se questa storia sia vera e lei, con coraggio, non solo non nega ma dice di avere intenzione di lasciare il marito. Davvero troppo, per i due uomini, che la massacrano di botte. Le si avventano addosso con tanta violenza da fracassarle una costola. Di andare in ospedale non si parla nemmeno, perché dopo quello che ha fatto, di lei non c’è più da fidarsi.
Così viene chiamato un medico amico, zio di Michele Bellocco e già condannato qualche anno prima per aver favorito un membro della cosca Pesce. Uno dei tanti professionisti che in Calabria, con certificazioni o visite a domicilio ad hoc, aiutano boss e latitanti a restare lontani dal carcere. Con discrezione e riserbo, questo compiacente dottore cura la donna per tre mesi, senza nemmeno prescriverle una radiografia. Le
ferite guariscono, ma la morsa dei controlli, per lei, si fa ancora più stretta di prima. Il fratello e alcuni cugini la pedinano ossessivamente ogni volta che si muove per le vie di Rosarno. La cognata le raccomanda di non fare conversazioni compromettenti al telefono, quando è in casa, perché Giuseppe ha piazzato qualche strano marchingegno per spiarla.
Maria Concetta è allo stremo della sopportazione, non può più in alcun modo disporre di sé, della sua vita. È una prigioniera senza speranza. Ma non è solo l’assenza di prospettive a preoccuparla. Maria Concetta conosce la legge del clan e sa che in gioco c’è la sua vita. Ha tradito il marito e ha disonorato la famiglia: da un momento all’altro potrebbe succederle qualcosa di terribile. È in questo stato emotivo che si presenta in caserma l’11 maggio 2011. Hanno rubato il motorino al figlio più grande e lei è convocata per le solite questioni burocratiche.
Quando si trova davanti al maresciallo che si sta occupando della pratica, Maria Concetta, d’impulso, gli rivolge una disperata richiesta di aiuto. Agitata, intimorita e continuamente interrotta dalle telefonate della madre, che vuole sapere dov’è, racconta in breve la sua storia: il marito in carcere, le lettere anonime, la segregazione e i pedinamenti.
Parla in fretta e dice di non potersi trattenere a lungo perché ha paura del padre: «Se la mia famiglia viene a sapere che oggi sono qua a raccontare queste cose mi ammazza», spiega prima di uscire dalla stazione dei carabinieri. Quattro giorni più tardi la donna viene di nuovo convocata in caserma.
I fatti che ha raccontato rivelano retroscena assai interessanti sulla vita del clan e gli investigatori vogliono riascoltarla per farsi un’idea più precisa della situazione. Lei ammette di avere una relazione extraconiugale e confessa di avere molta paura che il fratello la uccida per il suo tradimento. «Mio fratello ha un brutto carattere ed è capace di fare qualsiasi cosa, anche di farmi sparire», ripete più volte ai militari dell’Arma che la stanno ascoltando. Se il padre Michele in qualche modo può essere placato dall’intercessione della madre, Giuseppe invece è molto «testardo», perché è «cresciuto frequentando persone più grandi di lui sin da giovane» e si è conquistato così il «rispetto» della gente. "Rispetto" che adesso rischia di perdere per colpa sua. Per l’onta che potrebbe lasciare il tradimento, semmai venisse alla luce.
Se ancora non l’ha uccisa è solo perché sta cercando delle prove. Quando le avrà trovate ammazzerà lei e il suo amante. Per questo l’angoscia non l’abbandona mai e ogni volta che il fratello si presenta in casa lei trema. Perché «prima o poi mio fratello mi viene a dire: “Vieni con me” e a quel punto sono sicura che mi farebbe sparire». Ha già pensato di andarsene, di farsi ospitare da qualche amica che abita al Nord. Più di una volta è andata in agenzia a comprare il biglietto per il viaggio, ma all’ultimo momento ha cambiato idea. Per paura. Perché i suoi familiari sarebbero capaci di fare del male a chiunque la aiutasse e lei non vuole che altre persone ci vadano di mezzo.
Il percorso della collaborazione con la giustizia inizia da qui. Maria Concetta Cacciola ha cose molto scottanti da raccontare, come dimostra ai magistrati della Direzione distrettuale antimafia che la ascoltano nei giorni successivi alla sua richiesta di aiuto ai carabinieri. E' disposta a farlo in cambio di protezione. Ha fatto la sua scelta e deve solo aspettare il momento opportuno per scappare di casa.
Finalmente nel suo orizzonte asfittico si apre uno squarcio di luce, la prospettiva di una vita autonoma. Questa volta non si tratta di un’illusione: Giusy Pesce, sua cugina, ha fatto questa scelta prima di lei ed è riuscita non solo a salvare la pelle, ma anche a crearsi un’esistenza nuova accanto all’uomo che ama. Sarà difficile, si ritroverà tutti contro, ma già adesso, in fondo, è così. C’è un unico pensiero a trattenerla, a smorzare la sua determinazione: i suoi figli. Li adora, ma non può portarli con sé. Così decide di lasciarli alla persona che ama di più, che sente vicina, che sa che se ne prenderà cura come farebbe lei stessa: Anna Rosalba Lazzaro, sua madre.
«Non so da dove si inizia e non trovo le parole a giustificare questo mio gesto», le scrive nella lettera di addio. «Mamma tu sei mamma e solo tu puoi capire una figlia... so il dolore che ti sto provocando, e spiegandoti tutto almeno ti darai una spiegazione a tutto... non volevo lasciarti senza dirti niente. Quante volte volevo parlare con te e per non darti un dolore non riuscivo. Mascheravo tutto il dolore e lo giravo in aggressività, e purtroppo non potevo sfogarmi e me la prendevo con la persona che volevo più bene... eri tu e per questo ti affido i miei figli, dove non ce l’ho fatta io so che puoi [...] ma di un’unica cosa ti supplico, non
fare l’errore mio... a loro dai una vita migliore di quella che ho avuto io, a tredici anni sposata per avere un po’ di libertà... credevo potessi tutto, invece mi sono rovinata la vita perché non mi amava né l’amo, e tu lo sai. Ti supplico, non fare l’errore a loro che hai fatto con me... dagli i suoi spazi... se la chiudi è facile sbagliare, perché si sentono prigionieri di tutto.»
Per i suoi figli Maria Concetta vuole un destino diverso dal suo: «In fondo sono sola, sola con tutti e tutto, non volevo il lusso, non volevo i soldi... era la serenità, l’amore che si prova quando fai un sacrificio, ma avere le soddisfazioni, a me la vita non ha dato nulla che solo dolore».
È con una pena bruciante che dovrà convivere ogni singolo giorno della sua nuova vita da donna libera, e lo sa bene: «La cosa più bella sono i miei figli» scrive «che li porterò nel mio cuore, li lascio con dolore, un dolore, che nessuno mi ricompensa. Non abbatterti perché non lo farai capire ai miei figli, datti forza per loro, non darglieli a suo padre, non è degno di loro. [...] Io vivrò finché Dio mi lascia ma voglio capire come si può trovare la pace in me stessa [...] Mamma perdonami, ti prego ti chiedo perdono di tutto il male che ti sto provocando. Ti dico solo che dove andrò avrò la pace, non mi cercate perché vi mettono nei casini. E non voglio arrivare dove sono arrivati gli altri, per stare in pace. Ora non riesco a parlare più, so solo io quello e come la sto scrivendo ma non potevo lasciarti senza dirti e darti un saluto, so che non ti abbraccerò né ti vedrò ma negli occhi ho solo te e i miei figli. Ti voglio bene... mamma abbraccia i miei figli come hai sempre fatto e parlagli di me, non lasciarli a loro, non sono degni di loro, di nessuno. Mamma Addio e Perdonami, Perdonami se puoi».
Nel flusso di parole pesanti di emozione trova spazio, prima dell’ultimo addio, un risentito rimprovero per chi in fondo l’ha messa nelle condizioni di fare quello che sta facendo: «So che non ti vedrò Mai perché questa sarà la volontà dell’Onore, che ha la famiglia, per questo che avete perso una figlia». È per colpa dell’onore che lei è costretta a fuggire, è perché loro, il padre, il fratello e in fondo anche la madre, hanno sempre anteposto il codice a lei, alle sue esigenze, alla sua felicità. E ora che se ne sta andando trova il coraggio di rinfacciarglielo.
La notte tra il 29 e il 30 maggio 2011 Maria Concetta Cacciola viene prelevata di nascosto dai carabinieri del Ros e trasferita in un agriturismo a Cassano sullo Ionio. Assapora le prime settimane di vera indipendenza della sua vita. Chi la conosce in questa fase – il gestore della struttura, un cliente e una cameriera che saranno più tardi interrogati dagli inquirenti – la descrive come una ragazza solare, aperta, sempre di buon umore. Dentro, il dolore per i suoi figli è vivo, ma la leggerezza della libertà
è inebriante per questa donna che non l’ha mai davvero sperimentata.
Il 22 giugno Maria Concetta viene trasferita a Bolzano, da dove cinque giorni più tardi, per motivi di sicurezza, è condotta a Genova. Da un mese è lontana da casa, non ha più avuto contatti con nessuno dei suoi familiari, come prescrive il regime di protezione, e in lei si insinua la nostalgia della madre e dei figli. La voglia di sentirli è tanta, forse più di quella che pensava di dover affrontare. Si accorge di non essere abbastanza preparata. Così il 2 agosto, d’impulso, chiama la madre, le rivela dove si trova e le dice di volerla incontrare.
Anna Rosalba Lazzaro e il marito non aspettano altro, si mettono subito in viaggio e la raggiungono a Genova. Da qui ripartono la sera stessa per
tornare a Rosarno, portandosi dietro la figlia. Un attimo di debolezza? Un ripensamento improvviso? L’amore materno che ha avuto la meglio? Forse è l’insieme di tutte queste cose a indurre Maria Concetta a salire in auto con i genitori.
Durante il viaggio capisce di aver fatto un errore. Il padre, come rivelano agli inquirenti i microfoni nascosti nell’auto, cerca come prima cosa di capire quanto compromettenti siano le dichiarazioni rilasciate dalla figlia ai pm, e quando lei ammette di aver parlato addirittura di un omicidio, lui e la moglie esplodono: «Hai fatto... omicidio?... ah disg...» inveisce la madre maledicendola.
Maria Concetta evidentemente sa più di quanto pensassero. Vivendo in famiglia, per quanto non abbia alcun ruolo nelle attività criminali, ha assorbito informazioni preziose, ha ascoltato «discorsi di malavita che a lei non piacevano», come rivela all’amante all’inizio del loro rapporto, confessandogli di appartenere a una potente famiglia di ’ndrangheta.
Sfogata l’ira, i coniugi Cacciola cambiano registro, sforzandosi di apparire concilianti. «Cetta» le dice il padre rassicurante, «ti giuro a papà che nel giro di dieci giorni a Rosarno non si parlerà più di noi, stai sicura e tranquilla.» E ancora: «A noi può darci il torto, non a te, a noi... tu hai una vita davanti, stai tranquilla con la tua famiglia». Dentro di lui cova la rabbia, ma la gioia per aver riconquistato la figlia sembra più forte, e pare anche sincera.
«Me la prendevo con te [...] per il fatto dello sgarro, perché lo sgarro non me lo meritavo» le dice. «Io sono sicuro al cento per cento, lo sa tuo fratello, lo sanno tutti, lo sa tutto Rosarno, loro le cose me le fanno di altre cose, io voglio che mia figlia ritorni a casa, non la voglio [...] ricordati che gente siamo, ricordatelo, ricordati che non c’è nessuno [...] e se io debbo fare sacrifici per [...] io vado [...] hai capito? Perché tu sei sangue mio, e se io debbo passare problemi, e io li passo e non mi interessa. [...] Che ho passato lo so solo io, però non mi interessa niente, io lo so di essere stato disonorato.»
A poco a poco, dietro tutte queste manifestazioni di amore paterno, comincia a intravedersi un intento preciso: tenersi buona la figlia affinché, una volta a casa, si rimangi tutto quello che ha raccontato ai pm. È questo che preme a Michele Cacciola, sopra ogni altra cosa. Maria Concetta, chilometro dopo chilometro, si rende conto sempre di più di essere in trappola.
Arrivati a Reggio Emilia, dove lei e i genitori vengono ospitati per la notte da una cugina di Anna Rosalba, chiama gli uomini del servizio di protezione, dice loro dov’è e chiede che la vengano a riprendere. Il mattino seguente i coniugi Cacciola sono costretti a ripartire per Rosarno senza la figlia, ma nelle ore trascorse con lei hanno potuto saggiarne la vulnerabilità: se ha ceduto una volta, è probabile che lo faccia di nuovo, basta solo essere compatti e mettere in atto una strategia efficace.
Così, quando il figlio Giuseppe li chiama, mentre ancora stanno viaggiando, Michele lo esorta a recarsi subito dall’avvocato e a stare tranquillo, perché «a lei la teniamo noi [...] al magistrato deve andare lei e gli deve dire che non vuole essere più protetta». Il padre ha chiaro il percorso, occorre soltanto indirizzarci la figlia, che lui, nonostante la fuga recente, sente di avere in pugno. Ma bisogna cominciare a muoversi da subito, prima che diventi troppo tardi.
Quando Maria Concetta, in serata, chiama la madre da Genova, il piano scatta. Giocando subdolamente con i suoi sentimenti, Anna Rosalba Lazzaro comincia a tesserle intorno una tela vischiosa di promesse e rassicurazioni. Vuole che torni, magari potrebbero andare a vivere insieme, tutto si aggiusterà, basta solo che lei lasci perdere tutto e ritratti. «Cetta, vedi che me ne vengo anch’io con te... me ne vengo anch’io con te... ha detto papà che ci intestiamo una casa e me ne vengo anch’io con te [...] tu vieni con me... eh, Cetta lasciala stare... lascia stare tutte cose» le dice. «O Cetta, ascoltami, tu devi dire la verità, Cetta... che tu non sapevi niente... come non esiste.»
Ogni volta che si sentono al telefono la madre la incalza, non le dà tregua, vuole sfibrare la sua resistenza: «Cetta tornatene, tornatene indietro che questi qua vogliono il male nostro, loro lo sanno che tu non sai niente e tu devi dirgli che non sai niente... va bene?». L’unica cosa che deve fare Maria Concetta è chiamare l’avvocato, che è già stato preavvisato ed è addirittura disposto a recarsi a Genova per portarsela via: «Viene a prenderti e ti porta dove vuoi tu» le spiega la madre, «dalla zia Giovanna o dalla zia Angela, che ti mando i figli pure».
Anna Rosalba sa quanto a Maria Concetta manchino i figli, sa che l’amore materno è in quel momento il suo punto debole, ed è proprio lì che colpisce. «I figli vengono lì con te, non vuoi venire qua? Vai dalla zia Angela, dalla zia Santina, dove vuoi tu.» Insiste ed è tenace, Anna Rosalba, non molla la preda, la sfianca, e quando la figlia sbuffa perché si sente troppo pressata, lei replica asciutta: «Non sei spronata,
Cetta, ti stanno spronando loro, non sei spronata, tu devi scegliere: o noi o loro».
Maria Concetta è indecisa, si sente fragile, confusa. In quei giorni si sfoga con l’uomo che ama, a cui sa che le toccherebbe rinunciare nel caso tornasse a Rosarno: «So che se torno a casa ti ho perso. I miei non perdonano l’onore e la dignità e io gli ho toccato tutte 2 di queste» gli scrive in un sms il 5 agosto.
Il giorno dopo Maria Concetta chiama Emanuela, la sua amica del cuore. Le parole intercettate dagli inquirenti ricostruiscono il ritratto di una donna lucidamente consapevole del destino che la attende a Rosarno, ma incapace di fondare su questa certezza una scelta definitiva. Ammette di avere molta paura di tornare, non tanto per il padre, che per quanto arrabbiato dice di averla perdonata, ma per Giuseppe, che anche Emanuela ritiene molto più pericoloso: «Può anche darsi, Cetta, che tuo padre ha capito tante cose, che tuo padre ha capito tante cose, tanti sbagli che tu davvero hai fatto perché tuo fratello era davvero accanito. Lui era un malato mentale [...] in questo modo, che tuo padre sta soffrendo per te, stai tranquilla che tuo padre a tuo fratello non lo farà avvicinare a te nemmeno con un dito».
Giuseppe, d’altra parte, non è certo disposto a tornare in galera, e questa volta per omicidio: «Secondo il mio parere» cerca di rassicurarla l’amica, «non ti fa niente... perché poi lo deve mettere in conto anche lui». «E poi se dovesse succederti qualcosa, chi paga?». Ma l’eventualità che Maria Concetta potesse essere uccisa, qualcuno l’aveva messa in conto davvero a Rosarno. Emanuela le confida infatti che il giorno in cui lei è sparita, la madre si è vestita di nero in segno di lutto e ha cominciato a piangerla come morta. Gli altri «invece di consolarla le dicevano di rassegnarsi, questa era la parola di tutti».
«Me lo ha detto, mia mamma, che tutti le dicevano di rassegnarsi, che non è la prima né l’ultima, gli sembrava che me ne fossi andata con qualcuno», replica Maria Concetta. Ma l’amica precisa: «No, o che sei andata con qualcuno o che sei morta». «Ti giuro» le dice, «perché facevano esempi di certe persone che da trent’anni, da quaranta anni non c’erano più nemmeno nella faccia della terra, hai capito? Pensavo io. Pensavo io e gli dicevo a tua mamma: “Ma tu ti rendi conto di quello che ti stanno dicendo? Non possono paragonarti a te con queste persone”».
Sono passati decenni ma il codice non è cambiato. Le donne che infangano l’onore è molto probabile che spariscano, quindi non è assurdo che Anna Rosalba si vesta a lutto e pianga la figlia. Maria Concetta però non è morta, è viva, e sta pure raccontando ai magistrati cose che non andrebbero raccontate. Non solo. Gli uomini della sua famiglia sono riusciti a recuperare i tabulati delle sue telefonate all’amante. Hanno scoperto chi è, e sono pure andati a fargli una visita a casa. Glielo ha rivelato la madre e lei, in quel momento, non ha potuto più continuare a negare.
«Mia madre mi ha detto che ci sono i tabulati con quella persona [...] mi ha detto: “Vedi che loro sanno tutto”. Quando ti dicono vedi che loro sanno tutto tu cosa fai?». «Mia madre quel giorno mi ha detto: “O figlia, vedi che hanno tutti i tabulati... che hanno i tabulati di quando tu parlavi con una persona”. Ed io quindi a mia mamma in quel momento gli ho detto la verità». «Gli ho detto io... gli ho raccontato le cose come stanno... quando gli ho detto in quel modo si è messa a piangere e mi ha detto: “Figlia, tu devi sapere... io ti aiuto”».
Maria Concetta ora sa che la sua condanna è stata emessa. Il padre e il fratello hanno in mano le prove del suo tradimento e se lei tornasse la ucciderebbero perché «l’onore non lo perdonano e questa cosa gli è caduta più del fuoco della fiamma» dice a Emanuela. Anche la madre sa che la figlia rischia la vita se rimette piede in paese, ma questa certezza non la distoglie dalla sua azione di logoramento, che continua a svolgere con più tenacia che mai.
Maria Concetta deve uscire dal programma di protezione e rientrare all’ovile, è indispensabile. Perché la priorità, in questo momento, per lei e per il marito non è proteggerla, bensì costringerla a ritrattare. E Maria Concetta lo sa: «Ti dico la verità, che se torno loro sanno perché devo tornare!» spiega amara all’amica. «Loro mi fanno tornare apposta così loro dicono: “Mi cacci stì cose che c’erunu” [ritratti quello che hai detto] hai capito?». E ancora: «Dentro di me un po’ ho paura... anche se lei mi dice di ritornare per lei sono figlia, lo so, però gli uomini sappiamo come sono fatti, specialmente gli uomini lì da me no! Dicono: “Scendi. Così ritratti tutto quello che hai detto e che non hai detto”. Hai capito?».
Maria Concetta non si fa illusioni su quello che l’attende a Rosarno. Ma è lì che ci sono i suoi figli, e i genitori se li tengono ben stretti. «Io non so, Manuela... io non ho l’idea... io vorrei tornare a casa mia per i miei figli... perché i figli non me li mandano... non vedi che non me li hanno mandati [...] Non me li hanno mandati i figli e non me li mandano perché loro hanno capito che se mi mandano i figli è finita, non torno più.» Alla fine sarà proprio questa l’arma che la farà capitolare.
L’8 agosto, nel primo pomeriggio, la donna chiama la madre e scopre che è in viaggio per Genova insieme all’altro fratello, Gregorio, e alla figlia più piccola. Maria Concetta è stupita, non vuole vederli perché sa di essere debole, dice loro di tornarsene a casa, che l’hanno già spostata in un’altra città. La madre però non le crede, e allora lei chiede tempo, dice di dover avvisare qualcuno prima di poterli incontrare. In quel preciso istante dal telefono le arrivano le grida e i lamenti della bambina, subito sovrastati dalla voce imperiosa del fratello, che la aggredisce: «Cetta, a chi devi chiamare? Perché devi fare così? Ma la senti tua figlia cosa sta facendo?». «Digli di stare tranquilla» risponde lei, ma si sente replicare: «Che sta tranquilla, Cetta, che questa qua sta morendo». «Va bene dai, aspetta che ora glielo dico... chiudi chiudi, adesso li chiamo», sospira lei. È la sua resa definitiva. Quella sera Maria Concetta Cacciola lascia Genova e torna a Rosarno.
Dodici giorni più tardi, il 20 agosto, il padre e la madre raccontano di averla trovata priva di vita nel bagno del seminterrato della loro villetta. Ha bevuto acido muriatico. Michele e Anna Rosalba caricano in macchina la figlia e corrono in ospedale, ma ormai non c’è più nulla da fare. Maria Concetta Cacciola è morta. La sua storia però non è ancora finita. Tre giorni dopo, senza nemmeno aspettare che la figlia venga sepolta, i coniugi Cacciola depositano un esposto alla procura di Palmi.
È uno scritto in cui viene fornita una versione dei fatti palesemente distorta, tesa a far apparire Maria Concetta come vittima di un raggiro da parte delle forze dell’ordine, che l’avrebbero forzata a rilasciare dichiarazioni infamanti contro la sua volontà.
Sostengono che, approfittando del suo stato di debolezza psicologica, i militari le avrebbero promesso «in maniera subdola [...] una condizione di vita personale di assoluto vantaggio», ovvero una condizione di vita «migliore lontana da qualunque problematica di carattere familiare e personale, oltre forse anche di carattere economico», «che in realtà poi al contrario si è rivelato un autentico inferno», ma che in quel momento ha avuto buon gioco nel convincerla a offrire collaborazione. «Che mai avrebbe potuto offrire essendo la stessa lontana da sempre da qualunque tipologia di collegamento e/o circuito criminale o delinquenziale che dir si voglia.»
Una volta tornata a Rosarno, in famiglia, la figlia aveva finalmente ritrovato serenità, spiegano i Cacciola nell’esposto, tutti la ricoprivano di premure e attenzioni, «a parte qualche scenata di ordinaria e naturale gelosia». Se si era tolta la vita, era anche per colpa di chi con l’inganno l’aveva costretta a collaborare, ovvero forze dell’ordine e magistrati, sul cui comportamento era dunque opportuno far luce.
Insieme all’esposto, Michele e Anna Rosalba Cacciola depositano la lettera di addio scritta dalla figlia prima di lasciare Rosarno e un’audiocassetta che dicono di aver trovato due giorni prima nel taschino di una camicia. Contiene un messaggio della figlia, che in sostanza confesserebbe di avere accusato il padre e il fratello soltanto per vendicarsi di loro. Tutto quello che ha rivelato finora ai pm, dunque, sarebbe semplicemente frutto della sua fantasia.
Si tratta di un testo finalizzato a invalidare tutte le dichiarazioni rilasciate da Maria Concetta nel corso degli interrogatori, ma non è lei ad averlo pensato e non lo ha registrato spontaneamente. Oggi si scopre che a redigere il testo sono stati altri con la complicità degli avvocati arrestati. Lo dimostrano alcuni dettagli, come la presenza in sottofondo di una voce femminile che suggerisce certi passaggi o il fatto che in casa Cacciola, come rilevano le perquisizioni, non ci siano registratori.
Ma lo rendono evidente anche i numerosi messaggi che la donna invia negli ultimi giorni di vita al suo amante, da cui non traspare traccia del clima idilliaco che sul nastro dice di aver ritrovato in famiglia. «Mia madre bene, ma mio fratello all’inizio mi ha detto tutto e di più. Ora non mi rivolgono la parola. Mi portano avvocati, avvocati x farmi ritrattare dirgli che uso psicofarmaci e che l’ho fatto x rabbia... ora mia madre mi fa la loro freddezza verso di te mi fa paura... ma io lo so xche lo fanno anche le mogli».
In realtà Maria Concetta non ha mai fatto uso di psicofarmaci, le uniche pasticche che ingerisce sono pillole per dimagrire, ma facendola passare per depressa si lede la sua attendibilità di teste. La registrazione è con ogni probabilità effettuata nello studio dell’avvocato della famiglia, forse sulla base di un canovaccio che qualcuno ha già scritto e che Maria Concetta si limita a seguire.
Una versione dei fatti che sarebbe peraltro corroborata da una frase che la figlia maggiore di lei, Tania, pronuncia durante un colloquio telefonico col padre detenuto. Quando lui le domanda dove sia in quel momento la madre, lei risponde che è andata dall’avvocato per registrare.
In quegli ultimi giorni prima di morire, Maria Concetta è in completa balia dei suoi familiari, che hanno reso i controlli ancor più serrati e la stanno pesantemente manipolando. Vorrebbero addirittura imporle di andare in carcere a trovare il marito, ma lei, almeno su questo, riesce a far prevalere la sua volontà. Ha paura a uscire di casa, non perché teme di incontrare qualcuno che ha denunciato, ma perché si vergogna delle cose che l’hanno costretta a dire i suoi genitori per screditarla e salvarsi.
Tutti ormai sanno che lei è tornata e sta ritrattando, anche perché Michele e Anna Rosalba Cacciola si sono premurati di inviare ai giornali l’esposto, la lettera e la registrazione, che vengono pubblicati con grande evidenza. Sanno quanto può essere importante manipolare l’informazione, per incutere timore e cercare consenso. Non tutti i giornalisti si piegano, molti resistono a testa alta, malgrado intimidazioni e minacce. Ma qualcuno disposto ad assecondarli, i clan lo trovano sempre.
Maria Concetta è pentita di essere tornata a Rosarno, come scrive negli sms inviati all’amante in quei giorni, e ha deciso di andarsene di nuovo. Così chiede all’uomo di mettersi in contatto con Gennaro, il nome in codice del maresciallo suo riferimento nei Ros, e di illustrargli la situazione: «Parla con Gennaro, digli che i miei mi portano
in tutti gli avvocati che x colpa della mia leggerezza sono qui». E ancora: «Prova a chiamare Gennaro spiegagli come è andata e gli dici che voglio rientrare».
Il 17 e il 18 agosto Maria Concetta Cacciola telefona più volte alla caserma dei carabinieri. Parla con Gennaro, cui ribadisce di voler riprendere il programma di protezione. Il problema però è trovare il modo di uscire di casa senza farsi vedere. Il padre, la madre e il fratello la sorvegliano ogni istante. Lei vorrebbe che fossero i carabinieri a convocarla in caserma con una scusa, ma il maresciallo le spiega che è meglio di no, è più opportuno che sia una macchina a prelevarla di nascosto per strada.
Maria Concetta indugia, ha paura, sembra fare resistenza. È lei che chiama per cercare un accordo, è chiaro che vuole andarsene, ma poi rimanda, tergiversa. Ha preso la sua decisione ma lasciare i suoi figli, di nuovo, le risulta difficile. Inoltre non vuole che la madre possa essere accusata dal padre di averla coperta, e quindi esclude di potersi far prelevare quando è fuori in sua compagnia. «Non è facile, il modo di uscire da qua, non è facile» spiega a Gennaro, «perché poi mio padre se la prende, perché mi lascia con mia madre, e quello se la prende con lei!»
In un moto di confidenza, sentendo la madre come unica figura che in qualche modo le dà sostegno, Maria Concetta le rivela il suo piano. Ma Anna Rosalba non le offre la complicità che sperava. La figlia non può assolutamente fare una cosa del genere, lei lo impedirà, perché questa volta non vuole rassegnarsi a perderla.
Il 18 agosto, nel pomeriggio, Maria Concetta chiama di nuovo Gennaro e gli dice che la fuga va rimandata «perché mia figlia che sta male, la seconda, so che non è una cosa facile» aggiunge sospirando preoccupata. «Voglio vedere come va, perché sto facendo dei controlli ed ho paura, non si sente tanto bene, aspetto due o tre giorni e vi richiamo.» È l’ultima volta che Gennaro la sente.
Due giorni dopo Maria Concetta si toglierà la vita. È molto strano che i genitori l’abbiano lasciata a casa da sola, quel pomeriggio, ed è altrettanto strano che l’amore materno capace di trattenerla in quella prigione domestica non l’abbia tenuta con altrettanta forza attaccata alla vita. E poi c’era il suo nuovo amore, con cui progettava di rifarsi un’esistenza, come l’uomo racconterà agli inquirenti dopo il suicidio di lei.
Perché Maria Concetta avrebbe deciso di rinunciare a tutto questo? Se davvero si fosse trattato di un suicidio, a spingere Maria Concetta verso quella morte atroce non sarebbe stata certo la vergogna per aver raccontato bugie ai magistrati, quanto l’esasperazione e il senso di impotenza provocati in lei dalla brutale insensibilità dei suoi familiari, preoccupati soltanto di salvare l’onore e di non finire in galera per colpa sua.
Ma in galera ci finiscono lo stesso. Nel febbraio 2012, Fulvio Accursio, giudice per le indagini preliminari del tribunale di Palmi, dispone l’arresto per Michele e Giuseppe Cacciola, concedendo ad Anna Rosalba i domiciliari. Li ritiene responsabili di aver indotto la figlia al suicidio esercitando su di lei un’insostenibile pressione psicologica e sottoponendola a ripetuti maltrattamenti e soprusi, non ultimo quello di costringerla a ritrattare.
Il giudice è convinto non solo che possano comportarsi verso i nipoti con la stessa brutalità riservata alla figlia, ma che possano intimidire i testimoni e inquinare le prove. Per questo ritiene opportuno tenerli in carcere. Rischiano fino a vent’anni. E non sono riusciti minimamente a screditare l’attendibilità di Maria Concetta come testimone di giustizia: le sue dichiarazioni, come quelle della cugina Giusy Pesce, hanno consentito ai magistrati di sferrare pesanti colpi alle cosche di Rosarno e della Piana di Gioia Tauro.
A distanza di oltre un anno dall’omicidio-suicidio di Maria Concetta, nella villetta color giallo ocra della famiglia Cacciola vive ormai solo la madre. È agli arresti domiciliari e dunque non può parlare con gli estranei. Sulla parete accanto all’ingresso di casa è ancora incollato con il nastro adesivo un grande manifesto a lutto che ricorda la morte di «Cacciola Maria Concetta». Una sorta di sigillo della riconquistata rispettabilità familiare.
Poi è arrivato l'arresto anche per lei, insieme al marito, al figlio e ai due avvocati. Tutti in carcere. Eppure Maria Concetta voleva solo una vita che fosse la sua. Cercava, come scrive il gip Accurso nell’ordinanza di custodia cautelare, «quella libertà che da anni le veniva rubata a forza, mediante l’inflizione di penose umiliazioni, che erano compiute ad opera di chi avrebbe dovuto invece amarla di più, perché fatta del suo stesso sangue, e che pur tuttavia la rendeva prigioniera, costringendola a subire in silenzio le ferite fisiche e morali di chi pratica tra le mura domestiche le regole ferree dell’apparenza, che sono soprattutto quelle proprie di una famiglia contigua alla ’ndrangheta, dove il concetto di Onore viene elevato a principio cardine dell’esistenza».
Un principio in ossequio al quale «nessuno viene scrutato negli occhi e nel cuore, e per la cui osservanza si impone spesso, a chi non lo condivide, di morire lentamente in un inferno di regole non volute, da cui a volte è possibile fuggire via solo a costo della propria vita». È questo che è accaduto a Maria Concetta Cacciola. La speranza è che davvero le sue figlie possano avere un destino migliore del suo.
Attualità
8 febbraio, 2014Una donna che non si è piegata al volere della famiglia, del marito e della 'ndrangheta. Così scriveva all'uomo con cui voleva fuggire: «So che se torno a casa ti ho perso. I miei non perdonano l’onore e la dignità e io, per loro, li ho traditi entrambi»
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