Uno dei paradossi della crisi politica nel Paese dopo la fine di Gheddafi è un'enorme crescita delle nostre esportazioni: più 19,3 per cento rispetto al 2012

Un cantiere edile a Tripoli
Benedetto caos. Quello libico è una miniera d’oro per l’Italia, che nel 2013 ha visto il proprio export toccare il massimo storico, 2,87 miliardi di euro, 19,3 per cento in più rispetto al 2012 (l’ultimo record, di 2,7 miliardi, risaliva al 2010).

Tutto merito del boom dei consumi privati, dall’abbigliamento agli autoveicoli, dagli elettrodomestici ai prodotti alimentari (l’export della nostra pasta è salito in un anno del 157 per cento). «Contrariamente a quanto si può immaginare ricordando certa propaganda di Gheddafi, il marchio Italia ha grande capacità di attrazione in Libia, basti pensare alle centinaia di insegne di negozi o caffè che qui hanno nomi italiani o pseudo-tali», ci spiega da Tripoli Marco Pintus, direttore dell’ufficio libico dell’Ice, l’Istituto per il commercio estero.
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Oltre a quelli legati all’industria energetica, rimangono problemi nel settore pubblico, dove gli appalti sono bloccati: quello per la famosa autostrada promessa dall’Italia se l’è aggiudicato, nella prima tratta dal confine egiziano a Barca, un consorzio di nostre aziende capitanato da Salini-Impregilo, ma non si sa quando inizieranno i lavori.

Dietro l’Italia, che rimane il primo fornitore del Paese, crescono la Cina e soprattutto la Turchia, i cui prodotti, spiega Pintus, «sono considerati di qualità mediamente buona e hanno un prezzo inferiore a quello italiano».
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Ankara è l’unico altro Paese ad avere iniziato ad addestrare le forze di sicurezza libiche (l’Italia lo sta facendo a Cassino e Persano), e dovrebbe inoltre organizzare la prossima conferenza internazionale sulla Libia, l’ultima delle quali si è svolta lo scorso marzo a Roma.

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