La Rai sul piede di guerra per la 'cura dimagrante' voluta da Renzi
Il premier l'ha detto anche in tv: anche l'azienda radiotelevisiva pubblica deve 'fare la sua parte'. Ovvero, per assicurare la copertura finanziaria degli ormai famosi 80 euro, deve rinunciare a 150 milioni di euro di erogazioni dallo Stato. Così sindacati e lavoratori si mobilitano. E mentre si prospetta un vizio di incostituzionalità che potrebbe bloccare il decreto legge, c'è chi fa notare che lo Stato è in debito con l'azienda. Per 2 miliardi di euro
L’ha detto chiaramente il viceministro all’Economia Enrico Morando nel corso dell’audizione in commissione Vigilanza Rai tenutasi pochi giorni fa: “Anche la Rai deve fare la sua parte. Su questo punto il governo non intende arretrare, né esistono i margini per tornare indietro”. Il discorso è semplice: bisogna assicurare la copertura finanziaria per gli ormai famosi 80 euro e pertanto, secondo quanto prescritto dal decreto legge n. 66 del governo Renzi, anche la Rai sarà costretta a stringere la cinghia. E non di poco.
È l’articolo 21 quello che, specificatamente, interessa l’azienda pubblica. Pochi commi, 4 in tutto, dagli effetti però capitali: si eliminano tutti i riferimenti normativi che obbligano la Rai a mantenere necessariamente le sedi regionali oggi esistenti e si apre alla possibilità che l’azienda possa cedere sul mercato “quote di società partecipate” (con grandissima probabilità RaiWay). Infine, ciliegina sulla torta, il comma 4 che nei fatti rende obbligatorio tutto ciò contemplato solo in possibilità nei commi precedenti: “Le somme da riversare alla concessionaria del servizio pubblico […] sono ridotte per l’anno 2014 di euro 150 milioni”. [[ge:rep-locali:espresso:285497611]] Una cura dimagrante, dunque, niente male che ha messo sindacati, lavoratori e tecnici sul piede di guerra. Certo: come l’Espresso ha già rivelato, gli sprechi in casa Rai non sono pochi. Né i sindacati vogliono nascondersi dietro un dito. Ciò che si contesta, però, è il taglio indiscriminato “che non presenta alcun obiettivo mirato”, come denunciato dallo Snater (Sindacato Nazionale Autonomo Telecomunicazioni e Radiotelevisioni). Il segretario nazionale Piero Pellegrino non usa mezzi termini: il taglio di 150 milioni alla sola Rai (unica fra le molte partecipate dello Stato), dice interpellato da l’Espresso, “sa tanto di un favore alla concorrenza piuttosto che al contributo necessario per finanziare gli 80 euro per i 10 milioni di lavoratori italiani”. [[ge:espresso:plus:articoli:1.165325:article:https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2014/05/14/news/rai-va-in-onda-lo-spreco-1.165325]] C’è poi la questione delle sedi regionali: con il possibile accorpamento, dicono i lavoratori in protesta, “si rischia una perdita del fiore all’occhiello del servizio pubblico, che sarà meno efficiente e questo, ovviamente, vorrà dire perdere quel valore aggiunto che la Rai ha a dispetto di La7, Sky o Mediaset”. Ma non basta. È molto probabile che le quote societarie di RaiWay da mettere sul mercato andranno incontro a un incredibile deprezzamento: essendo la Rai obbligata per legge, l’acquirente avrà possibilità di presentare un’offerta certamente inferiore al reale valore di mercato della struttura (che oggi si aggira intorno ai 600 milioni di euro).
La paura più grande per i lavoratori, però, è quella della perdita di posti di lavoro: “I tagli del decreto – continua ancora Pellegrino – sono indiscriminati e non si sa a cosa potrebbero portare. Certo è che con l’accorpamento o la dismissione di sedi Rai, ovviamente, si metterà pesantemente a rischio la realtà occupazionale di migliaia di lavoratori, sia diretti che nell’indotto”. Ecco perché “bisogna capire che non esistono solo i numeri. Dietro ci sono persone e famiglie intere che ora vivono la preoccupazione di un possibile licenziamento”.
UN PROVVEDIMENTO INCOSTITUZIONALE? Insomma, l’aria che si respira in questi giorni in Rai è tutt’altro che tranquilla. Anche perché, accanto agli effetti che il decreto potrebbe avere anche nell’immediato, è l’impianto normativo che non convince tanti. Non è un caso allora che lo Snater nei giorni scorsi abbia dato mandato al costituzionalista Michele Ainis affinchè formuli “un parere pro veritate atto a individuare tutti gli eventuali profili di incostituzionalità presenti nel d.l. 66/2014”. Basta così? Certo che no. Anche l’Usigrai si sta muovendo in tal senso, avendo conferito mandato ad un altro costituzionalista, il professor Alessandro Pace.
In effetti, a sfogliare i documenti stilati da sindacati e lavoratori e che L’Espresso ha potuto visionare, più di un dubbio sorge sulla reale legittimità del provvedimento. Come denunciato ad esempio in una lettera del consigliere anziano del CdA Guglielmo Rositani inviata ai componenti della commissione Vigilanza Rai e ai vertici dell’azienda, spiccherebbe innanzitutto un vizio formale dato che il comma 1 dell’articolo 21 della riforma Renzi che mette appunto in discussione le sedi regionali, fa erroneamente riferimento all’art. 17 della legge Gasparri “che è stato nei fatti integralmente sostituito dall’art. 45 del d.gs 177/2005 (il cosiddetto Testo Unico della Radiotelevisione, ndr) per cui lo rende privo di effetti”.
Il vizio, però, da formale diventa anche concreto, dato che l’articolo 46 dello stesso Testo Unico attribuisce alla regioni la possibilità di “stipulare specifici contratti di servizio con la società concessionaria del servizio pubblico generale di radiodiffusione”. Ecco allora che si aprirebbero a riguardo margini di incostituzionalità, dato che l’articolo 21 comma 1 interviene su competenze delle regioni e quindi entra in contrasto con l’art. 117 della Costituzione che riconosce appunto alle regioni “la potestà legislativa in riferimento ad ogni materia non espressamente riservata alla legislazione dello Stato”.
Ma non è tutto. Ad essere messa in discussione è anche la stessa riduzione di 150 milioni dalla quota di finanziamento pubblico. Ciò infatti sarebbe in netto contrasto con la norma, contenuta ancora nel Testo Unico, secondo la quale “il Ministro delle comunicazioni, con proprio decreto, stabilisce l’ammontare del canone di abbonamento […] in misura tale da consentire alla società concessionaria della fornitura del servizio di coprire i costi che prevedibilmente verranno sostenuti in tale anno per adempiere gli specifici obblighi di servizio pubblico generale radiotelevisivo affidati a tale società”. Cosa vuol dire questo? Semplicemente che non si può d’imperio decidere un taglio quando già “prevedibilmente” si è ragionato sui costi da sostenere “per adempiere gli specifici obblighi di servizio pubblico”.
Senza dimenticare un particolare non da poco: quella del canone, secondo quanto denunciato dai sindacati, è una cosiddetta “imposta di scopo” e, dunque, è vincolata all’adempimento degli obblighi del servizio pubblico. La questione è piuttosto ostica, tanto che lo stesso viceministro Morando, nel corso dell’audizione, non ha negato che è proprio qui che si giocherà la partita della legittimità costituzionale: se ritenere il canone un’imposta di scopo o, più semplicemente, una “prestazione tributaria”, dunque una normale tassa i cui proventi possono essere impiegati come meglio si crede senza, per così dire, fini prestabiliti.
Finita qui? Certo che no. Rilievi di incostituzionalità vengono rilevati anche in riferimento all’articolo 3 della Costituzione “per aver imposto tra le Società sotto il controllo pubblico solo alla Rai il contributo di 150 milioni di euro, con evidente disparità di trattamento nei confronti degli altri soggetti in analoga posizione giuridica, posto peraltro che la Rai non entra nel perimetro delle Società che contribuiscono al bilancio consolidato dello Stato”.
IL GOVERNO CHIEDE SOLDI ALLA RAI. MA GLI DEVE 2 MILIARDI All’ingarbugliamento normativo si aggiunge anche un’altra questione che, sebbene sia passata sottotraccia fino ad ora, rischia di avere effetti importanti sulla riforma di Renzi: “La riduzione di 150 milioni – denuncia ancora Rositani – non potrebbe effettivamente avvenire perché già la Rai […] è creditrice nei confronti del Governo di circa 2 miliardi e 500 milioni di euro per mancati rimborsi”. Sembra assurdo, ma è proprio così. Stiamo parlando di un credito accumulatosi anno dopo anno a partire dal 2005 per la mancata copertura dei costi sostenuti dalla Rai nell’adempimento degli obblighi di servizio pubblico. La vicenda – di cui si sta interessando anche l’associazione Articolo 21, in appoggio ai sindacati Rai – nasce nel 2011 quando il precedente CdA invia al ministero dello Sviluppo Economico un atto di diffida con intimazione di pagamento (mai avvenuto) del debito certificato. Un debito che, dal 2005 al 2009 (periodo di riferimento della diffida), ha reso evidente una distanza tra l’ammontare dei costi di servizio pubblico e le risorse pubbliche effettivamente destinate alla Rai di ben 1.348,9 milioni, saliti a 2,3 miliardi fino ad oggi.
Ecco allora che la questione si complica e non poco. Contrariamente a quanto suggerito da Rositani, dal ministero pare che nessuno abbia voglia di defalcare i 150 milioni dal debito contratto. Come ci dice d’altronde anche lo Snater: “E' qui che sta la fregatura. Sono contributi che avrebbero dovuto darci ma che, per la spending review, non ci hanno versato. Se noi avessimo avuto a bilancio questi soldi, il taglio ora sarebbe stato più gestibile. Invece è come se ci dicessero: non vi diamo 150 milioni per quest’anno, ma a causa della spending review non vi ridiamo nemmeno gli oltre 2 miliardi che vi dobbiamo”. Insomma, la situazione è quella di un’azienda che da tempo non viene finanziata interamente dallo Stato ed oggi, “a metà esercizio, con le trasmissioni già tutte programmate e l’impegno oneroso dei Mondiali di calcio in Brasile, ci sottrae ulteriori 150 milioni. Allora la domanda è: mettere in ginocchio il servizio pubblico a chi giova?”.
IL TESORO NASCOSTO DELL'EVASIONE Eppure ci sarebbe un modo per reperire una grossa fetta di quanto oggi si chiede alla Rai. Ad esempio intraprendendo una seria battaglia contro l’evasione fiscale legata al pagamento del canone. Gli ultimi dati della Corte dei Conti (febbraio 2014) sono scioccanti: secondo quanto rivelato dai magistrati contabili, rispetto all’evasione del canone ordinario le potenziali utenze televisive non paganti sono pari a 6.027.399 e, cioè, al 26,51% delle famiglie. Si tratta di una media estremamente elevata, soprattutto se raffrontata con quella europea che si attesta intorno all’8%. C’è poi l’evasione del cosiddetto “canone speciale”, ovvero quello che gli esercizi commerciali come bar, ristoranti e alberghi devono pagare alla Rai. Ed anche in questo campo l’evasione è altissima: il mercato potenziale complessivo di riferimento è di circa 1.350.000 esercizi. Al momento la Rai ne trae circa 70 milioni, ma potrebbe ottenere molto di più: “La valutazione dell’Azienda – scrive la Corte – è che l’evasione dal pagamento dei canoni speciali sia valutabile nella misura del 65-70% dei citati 1.000.000 “esercizi”, corrispondenti circa a 100 milioni di euro all’anno”. Solo il canone speciale, dunque, farebbe fruttare due terzi di quanto oggi Renzi chiede alla Rai.