L'Avcp, chiamata a vigilare sui contratti pubblici, è un carrozzone da 80 milioni di euro l'anno. Che negli ultimi anni si è lasciata sfuggire qualche 'disattenzione' di troppo, tanto da attirare su di sé gli strali del premier, tentato dall'ipotesi di sopprimerla

Quando il 22 luglio prossimo a Montecitorio Sergio Santoro, il presidente dell’Authority per la vigilanza sugli appalti e i contratti pubblici (l’acronimo sembra un refuso: Avcp), dovrà riferire come ogni anno al Parlamento il suo lavoro degli ultimi dodici mesi, si troverà anche a dover rispondere, in sostanza, a un quesito niente male: “perché esiste, l’organismo che presiedo?”.

La questione l’ha posta nei giorni scorsi il premier. Scosso dai casi Expo e Mose, Renzi ha lanciato, più che un dubbio, un missile terra aria: “Un’autorità che negli anni ha visto aumentare i dipendenti, le indennità, ma intanto non si è accorta di un solo appalto in cui le cose non andavano, non ha senso che esista”.

Un’aria pesante su via di Ripetta, sede dell’Avcp, che Santoro aveva ampiamente subodorato. Come si conviene a un navigatissimo grand commis, capo di gabinetto già ai tempi di Emilio Colombo al bilancio (era il 1986), ma anche (trentadue anni dopo) di Alemanno sindaco di Roma, prima di farsi nominare causa simpatie finiane a capo dell’Autorithy, Santoro ha cominciato a piantare paletti già da un po’.

A fine maggio, con eloquente tempismo, ha sfornato un dossier sulle criticità del sistema degli appalti pubblici dal 2000 al 2010 (occuparsi degli ultimi tre anni e mezzo era evidentemente prematuro) e lo ha voluto consegnare direttamente a Raffaele Cantone, uomo forte dell’anticorruzione nell'era renziana e suo probabile carnefice. Non solo.

Proprio per far sapere che esiste ed opera, ma con effetti controproducenti sul premier a quanto pare, negli ultimi giorni si sta prodigando in interviste sul malaffare: in particolare tuona contro le male gestioni, fatte di urgenze, deroghe e affidamenti diretti dei lavori.

Peccato che proprio sugli affidi diretti, cioè le spese non superiori ai 40 mila euro che possono essere assegnate senza una gara pubblica, l’Avcp abbia avuto, per così dire, un’interpretazione “estensiva”.

Curioso, perché la procedura è in genere considerata un potenziale terreno fertile per la scarsa trasparenza, tanto che è buona norma ricorrervi in casi eccezionali (quando cioè una gara rappresenterebbe una spesa superiore all’impresa).

Niente di formalmente illegale, per carità, anche se poi per legge bisognerebbe dare conto per filo e per segno del perché, pure se per piccoli importi, si decide di non seguire le regole dell’appalto.

Fatto sta che, saltando lo sgradevole step dell’apertura buste, sono stati dati, per esempio, 15 mila euro per l’assistenza al software che gestisce le presenze del personale, 22 mila euro per gli abbonamenti online a “Il fisco”, 37 mila euro alla società Cartotecnica romana per fornire toner e cancelleria, altri 39.833 (160 euro in più e toccava pure fare la gara) sempre per i toner alla Errebian spa, 23 mila euro per tre stampanti laser, una multifunzione e uno scanner a un’altra società ancora.

Potevano esserci proposte più vantaggiose? Non lo si saprà mai. Infine, per sfamare a buoni pasto gli oltre 330 dipendenti all’Avcp sono riusciti a spendere 242 mila euro, ma anche in quel caso, senza un appalto: a via di Ripetta hanno ritenuto sufficiente una “procedura negoziata senza previa pubblicazione di un bando” (una spesa, quella dei ticket, che nell’ultimo rendiconto finanziario si trasforma in considerevoli 370 mila euro).

Spiccioli, comunque. Per funzionare fino a oggi l’Avcp ha avuto bisogno di oltre 80 milioni all’anno, in gran parte autofinanziati grazie all’obolo che le versano per legge le ditte per partecipare alle gare pubbliche d’appalto.

I suoi membri da soli costano 1,6 milioni all’anno; dal 2014 sono passati da sette a quattro dopo che Andrea Camanzi ha spuntato la presidenza della nuova Authority sui trasporti, Piero Calandra s’è dimesso a marzo (era spuntato fuori il suo nome nella cricca di Maria Rita Lorenzetti, ex Presidente dell’Umbria, nell’inchiesta sui lavori per la Tav Toscana) Alfredo Meocci (ex Udc di ferro, ex Direttore generale della Rai, tra l’altro) s’è dovuto dimettere a febbraio, perché coinvolto in un’indagine su presunte agevolazioni negli appalti legati allo scandalo romano di “vigilopoli”.

Certo, sarà difficile che quest’anno Santoro abbia il coraggio di chiedere più soldi al governo. Nel 2013, Letta regnante, ci provò, aggiungendo pure con grazia che “l’Autorità riconferma la propria disponibilità, nell’ambito delle nuove funzioni assegnate, accanto alla tradizionale attività di vigilanza, a svolgere fino in fondo il proprio compito”.

La cronaca dell’ultimo anno non pare aver dato ragione ai proclamati sforzi, ma comunque i tempi sono cambiati. In queste settimane, la prima occupazione dell’Avcp è sopravvivere. Già nel dopo Cottarelli si parlò di una sua soppressione, e assorbimento alle Infrastrutture di Maurizio Lupi (il tutto si bloccò perché il ministero a sua volta concede appalti, cosa che fa del resto l’Authority stessa quando svolge la sua attività contrattuale).

Adesso, però, l’arrabbiatura del premier per i sospetti di omessa vigilanza rischia di diventare il macigno finale. Tanto più nelle ore in cui Raffaele Cantone chiede più poteri - pronto fra l’altro a commissariare di fatto una quota del lavoro non svolto dall’Avcp -  e il governo promette un decreto ad hoc (in arrivo venerdì) per riconoscerglieli.

In tal caso, è improbabile che Santoro rimanga senza occupazione. Nella sua biografia ufficiale, sfodera un poker da presidente: dell’Avcp, di Sezione del Consiglio di Stato,  di Sezione della Commissione Tributaria Provinciale di Roma, dell’Associazione Nazionale dei Magistrati della Giustizia Amministrativa, tanto per citarne quattro.

Né rischia di rimanere senza amicizie: del resto con una carriera così lunga se ne stringono così tante di relazioni, che all'occorrenza possono concretizzarsi in consulenze e collaborazioni.

Come quella di Andrea Monorchio, già Ragioniere generale dello Stato, che è stato chiamato a controllare la regolarità amministrativa dell'Authority, ma anche di Alberto Maccari che, appena lasciata la direzione del Tg1, ebbe 4.500 euro lordi per fare un mese di réclame, in veste di ufficio stampa, alla relazione annuale del Parlamento (non bastando, evidentemente, gli uffici del portavoce personale di Santoro Francesco Naddeo, centomila euro l'anno, più quel lidell'addetto alla comunicazione dell’Authority Alessandro Menenti, dirigente di ruolo).

Ma insomma, anche senza patemi d’animo per il suo presidente, il 22 luglio, complice il meteo, sarà come si dice un giorno rovente. E il sospetto che la prossima possa essere l’ultima relazione dell’Authority restituisce una suspense istituzionale quasi cinematografica.

Sempre che Santoro non riesca a convincere Renzi, rispondendo alle domande eterne dell’uomo: chi sono, che ci faccio qui, dove vado, ha senso che sia al mondo?